venerdì 15 dicembre 2023

I cani ferali





In un periodo storico fatto di fake news e di autocelebrazioni via social, la terminologia cinotecnica è stata una di quelle materie che ne ha fatto più le spese, grazie ad errori grossolani passati del tutto inosservati e rivenduti al gergo cinofilo con incredibile nonchalance, più per la proprietà onomatopeica ed evocativa che per il contenuto. 
È il caso del termine “cane ferale”, indicato dai nuovi cinofili come quel soggetto nato e cresciuto allo stato selvatico e senza alcun aiuto da parte dell’uomo, né confidenza con esso. Diverso per comportamento e selezione dal cane di proprietà, dal cane randagio e dal cane vagante, questo “cane ferale”, dalla tassonomia così sinistra ed inquietante, viene didascalizzato sulle pagine di vari siti, blog e social senza alcuna uniformità. Insomma: ognuno dice la sua; seppure in linea di massima si parli di cani “nati e cresciuti allo stato selvatico” (che non sono i canidi selvatici).




Alcuni lettori mi hanno chiesto se fossi al corrente del motivo per cui la traduzione così impropria di “feral dog” – cane selvatico – sia diventata d’uso comune tra i professionisti del settore, e soprattutto, chi l’abbia tirata fuori per primo, e in quale contesto.

La prima persona che ha utilizzato questo termine è stata la dott.ssa Barbara Gallicchio nel suo libro “Lupi travestiti” (2001, Edizioni Cinque) all’interno del capitolo XXV “Cani che vivono liberi”, citando una ricerca del Prof. Luigi Boitani e della dott.ssa Maria Laura Fabbri.




Gallicchio scrive:

«In tutto il territorio nazionale sono stati stimati 800.000 cani che vivono liberi, di cui il 10% possono essere definiti “ferali” cioè, che vivono senza contatti diretti né dipendenza dall’uomo (Boitani & Fabbri, 1983

Purtroppo però di questa definizione – “cane ferale”, appunto - non c’è alcuna traccia nel lavoro di Boitani e Fabbri; lavoro peraltro definito dallo stesso Boitani come “formale”.




Anzi! Gli autori raggruppano le tipologie di cani oggetto dello studio in queste categorie:


l) Nella prima categoria sono inclusi i cani ufficialmente iscritti nei Registri Comunali.

 

2) Nella seconda sono inclusi cani che hanno un padrone ma non sono registrati ufficialmente.

 

3) Nella terza sono inclusi i cani randagi, quelli cioè senza padrone che vagano nei pressi degli insediamenti umani e che sono in qualche forma dipendenti dall'uomo per l'alimentazione o perché ne ricercano attivamente la presenza e la compagnia.

 

4) Nella quarta sono inclusi i cani inselvatichiti, quelli che hanno riguadagnato una indipendenza pressoché assoluta dall'uomo da cui rifuggono come animali selvatici. Pur venendo spesso vicino a paesi e case alla ricerca di cibo, questi cani evitano l'incontro con l'uomo, si spostano di notte, vivono in branchi, uccidono facilmente animali domestici e si comportano in maniera molto simile al lupo (Boitani, 1982).


Il grande successo editoriale del libro di Barbara Gallicchio fece sì che la traduzione impropria di “feral dog” si espandesse e cominciasse a fare presa sui neofiti dell’epoca, fissandosi indelebilmente nel loro modo di intendere i cani che vivono allo stato libero.

Ma perché “feral dog”? E cosa c’entra con il termine italiano “ferale”? Perché utilizzare impropriamente una ricerca del Prof. Boitani nella quale non c’è alcuna traccia di questa parola?

Partiamo dal presupposto che la lingua della scienza è l’inglese, e che pertanto tutte le ricerche scientifiche sono scritte in inglese. Questo fa sì che quando ci si riferisce ad un cane rinselvatichito si parli di “feral dog”. In sostanza siamo di fronte ad un anglismo, cioè ad una parola inglese che viene recepita in un'altra lingua; in questo caso l’italiano.


Nove anni dopo l’etologo Danilo Mainardi dovette fare i conti con questa traduzione sbagliata nel suo libro “Il cane secondo me” (2010, Cairo Editore); e ben inteso: “farci i conti” non significa essere d’accordo, ma dover prendere atto che un termine è entrato nel gergo comune e, per quanto possibile, dare una spiegazione valida a sostegno della cosa. 




Sotto questa spinta Mainardi fece però qualcosa in più, cercando di assegnare al termine feralità un senso scientifico e zoologico.

Se ci sia riuscito o meno non lo so, ma resta il fatto che la massima autorità della lingua italiana (Accademia della Crusca) sostiene (CIT) «la trattazione degli anglismi non ha il valore di un battesimo o di una certificazione» - e se infatti cercate il termine “feralità” su un qualunque dizionario italiano, non lo troverete (si ricorda che WIKIPEDIA ed i blog autoreferenziati non sono dizionari della lingua italiana).

Per Mainardi la feralità è una condizione; uno stato. Qualcosa che lui stesso ritiene nuovissimo, ma al tempo stesso antico. Una dicotomia pericolosa e poco accettabile per i puristi che si occupano di scienza.

Anche lui utilizza, seppure meno impropriamente, una ricerca del 1994 del Prof. Boitani (Comparative social ecology of feral dogs and wolves, Boitani e Ciucci, 1995, pu. 2010) nel quale venivano confrontati alcuni tratti socio-ecologici dei cani selvatici (feral dogs) e dei lupi al fine di comprendere l’ecologia sociale di questi cani in termini di adattamento, e per valutare in quale misura il processo di domesticazione abbia o meno alterato i modelli socio-ecologici del lupo.





Per “feral dogs” (tradotto in italiano in “cani selvatici”) Boitani e Ciucci intendono però quei cani (CIT) «senza cibo, né riparo intenzionalmente fornito dagli esseri umani»; quindi dei cani selvatici o – come scrive lo stesso Boitani - “rinselvatichiti”.

Il progetto durò tre anni e si svolse in Abruzzo, regione italiana dal randagismo modesto, se messo a confronto con altre Regioni italiane.

Nell’articolo Boitani descrive i cani rinselvatichiti come vengono ancora descritti oggi, cioè soggetti schivi, senza alcuna confidenza nei confronti dell’uomo e vaganti sul territorio.

Mainardi invece, nell’intento di chiarire il neologismo “feralità” ne descrive in prima battuta la storia.

 

Riporto il suo testo.

«Il linguaggio specialistico produce parole strane, che spesso fanno inorridire i puristi e che magari sembrano poco utili. Sono vocaboli che tendono a definire fenomeni nuovi o, se non altro, che si propongono all’attenzione con una forza prima inesistente. È il caso, per la zoologia, del termine “feralità”, che, oggettivamente, non indica un fenomeno nuovo. Rimane, però, un problema purtroppo sempre attuale. Perciò, probabilmente, è nato il neologismo, che poi sarebbe (come ormai avviene quasi sempre per la scienza) un anglismo. Perché la sua origine “feral”, aggettivo che non ha niente a che vedere con il nostro “ferale” (una ferale notizia). Feral, in inglese, vuol dire, grosso modo, rinselvatichito».

(“Il cane secondo me”” – Danilo Mainardi, 2010, Cairo Editore)


Mainardi pertanto chiarisce senza mezzi termini l’esatta traduzione di “cane ferale” in un più normale “cane rinselvatichito", e varrebbe la pena sottolineare che questo termine è stato ampiamente usato anche dal Prof. Boitani, oltre che nei lavori scientifici di cui sopra, nelle varie presentazioni dei suoi lavori e durante i congressi che riguardavano la mitigazione del conflitto tra il lupo (Canis lupus italicus) e gli allevamenti di animali da reddito.

L’etologo, sempre nel suo libro “Il cane secondo me”, passa poi a descrivere il termine “feral” portando l’esempio di altre specie «Sono feral, per esempio, i colombi delle piazze» (ibidem) facendo eco alla ricerca di Boitani e Ciucci nella quale si inserivano nella lista dei "feral" anche i suini sfuggiti all’uomo e riprodottisi allo stato selvatico senza l’incrocio con i cinghiali. In tutto questo Mainardi non abbandona mai la traduzione fedele di “feral”, cioè di “cane rinselvatichito”.

 Da qui, sempre Mainardi, spiega poi il suo punto di vista cercando di dare al termine “feralità” un connotato e una valenza zoologica. 

«E allora perché feralità? Non sarebbe meglio rinselvatichimento? Forse, ma la lingua internazionale della comunicazione scientifica è l’inglese, ed è quindi intorno a ferality che s’è lavorato con le definizioni, con sottili distinguo. Per lo specialista ormai feralità ha - come potrei dire? - una maggiore precisione, una sorta di valore aggiunto rispetto a rinselvatichimento. Insomma, è anche così che nascono i neologismi. Veniamo però al concreto, e consideriamo il cane, che è animale domestico per eccellenza, e il suo corrispettivo selvatico, il suo antenato lupo. Ebbene, tra lo stato di domesticità e quello di selvaticità esistono altri stati, ed è in quest’àmbito che si colloca la feralità» (ibidem).

In sostanza, queste parole tendono più a giustificare un errore semantico che non dare valore scientifico al termine “cane ferale” adducendo una collocazione ecologica di questi soggetti a metà strada tra il cane ed il lupo non proprio vera.

Personalmente non vedo alcuno stato di “feralità” (cosa sarebbe poi?) nei cani rinselvatichiti, visto che sono a tutti gli effetti dei Canis lupus familiaris e si comportano come quei randagi e vaganti che non hanno alcuna confidenza con l’uomo. Si cibano di immondizia, rifiuti antropici e scarti umani, mangiano qualche gallina quando gli va bene e vivono di quel che trovano. È vero, formano gruppi molto più piccoli e più compatti rispetto ai randagi e sono spesso imparentati tra di loro, ma qualunque professionista del comportamento canino che ci abbia lavorato li vede come soggetti affetti da sindrome da privazione sensoriale, tipica di quei cani che sono cresciuti in ambienti poveri di stimoli. L’unicità, se così vogliamo chiamarla, sta nel fatto che i cani rinselvatichiti sanno cavarsela in ogni situazione, purché lontana da fattori antropici. Sanno trovare l’acqua, sanno risparmiare le loro energie, sanno essere elusivi e fiutare i pericoli come qualunque animale selvatico; sanno vivere nella natura. Ma è proprio per questo che nessuno – prima della dott.ssa Gallicchio – li ha mai definiti “ferali”, ma più semplicemente rinselvatichiti.

Tornare ad una condizione selvatica significa solo essersi appropriati sotto il profilo ontogenetico di alcune abilità che i cani randagi e i cani di proprietà non hanno, ed aver subito una pressione selettiva che li ha temprati un po’ sotto il profilo genetico. Questo però da una parte non cambia il loro status di Canis lupus familiaris, perché un lupo tolto alla madre nei suoi primi giorni di vita e cresciuto dagli umani, resterà sempre un lupo, e la sua condizione selvatica prima o poi salterà fuori (vedi i vari American Wolf Hybrid ad alto contenuto sfuggiti ai proprietari). Secondo Boitani, quindi, un animale domestico che ritorna in un paio di generazioni allo stato selvatico è appunto un “rinselvatichito”; non un “cane ferale” (semmai un “feral dog”).






Nella frase di Mainardi «tra lo stato di domesticità e quello di selvaticità esistono altri stati, ed è in quest’àmbito che si colloca la feralità» l’etologo non chiarisce affatto i connotati della feralità, ma si limita a mettere un mattone sul quale eventualmente argomentare e discutere la questione; il che è molto diverso.

 

Quindi perché non chiamare questi cani “ferali”?

Nella lingua italiana, come ha sottolineato lo stesso Mainardi, il termine “ferale” indica un cattivo augurio, un cattivo presagio, qualcosa di funesto. Ma il funesto – come sostiene un caro amico professore di filologia – «lascia in un silenzio sbigottito, mentre il ferale spaventa in maniera più accesa».

 Ferale” deriva da “fera”, femminile di ferus, “feroce”. Il più atavico terrore dell’uomo, dal profilo fiero (stessa etimologia). Quella fiera che oggi è nelle rappresentazioni cinematografiche come qualcosa che non conosciamo e ci fa paura, ma che riecheggia nelle fiabe del passato e negli archetipi junghiani.







Perché dare a questi cani un connotato così sinistro quale è il termine “ferale”? È vero che si dice anche “lupo nero”, ma di melanici in Italia non è che ce ne siamo poi molti, ed in ogni caso, sono lupi come gli altri 😉

 

Allora il termine corretto è "cane rinselvatichito”?

Anche se quello è almeno il vero termine utilizzato dal Prof. Boitani nelle sue ricerche, pertanto dotato di liceità, secondo me non lo è per il semplice motivo che in zoologia il termine “selvatico” è riferito esclusivamente a specie animali mai addomesticate dall'uomo.

Un Mustang o un cavallo del Namib è chiamato “selvaggio”, non selvatico (la differenza semantica non è proprio sottile). E lo stesso vale per la nostra specie, quando il mondo occidentale incontra per la prima volta conspecifici del Borneo o della foresta Amazzonica: si parla di uomini selvaggi"; non "selvatici".



Loro sanno vivere nella giungla, mentre noi europei no. Questo da una parte li avvantaggia nel loro ambiente, ma li penalizza nel nostro.

Alla fine è quindi solo una questione ontogenetica, perché se prendo una coppia di cani rinselvatichiti e li porto a Milano crescendo i loro cuccioli come se crescessi un Golden Retriever, magari con tanto di biosensor, otterrei dei cani di proprietà abbastanza normali * esattamente come se prendessi un bambino di pochi giorni dalla giungla e lo facessi crescere da una madre italiana facendolo vivere nel centro di Roma.

Ma di più, quello che Danilo Mainardi definisce uno stato, non è necessariamente definitivo, ma una condizione che può essere transitoria, e lo dimostra il numero dei cani rinselvatichiti che io, e tanti altri colleghi, abbiamo lavorato negli anni.


(coppia di cani rinselvatichiti lavorati c/o il mio centro con l'ausilio di cani spalla)


Gli allevatori selezionano i loro riproduttori sulla base delle attitudini di razza, dell’aderenza morfo-funzionale allo standard e del carattere. Questo significa che di una coppia di cani rinselvatichiti, quindi nati da almeno una generazione allo stato libero, non si può sapere nulla in merito al carattere, né cosa potranno passare sotto il profilo genetico. Sappiamo però che la madre è la massima insegnate dei cuccioli fino ai 90/120 giorni, e questo fattore non è sottovalutabile. Una madre rinselvatichita insegnerà buona parte del suo mondo alla progenie e questo, seppure io utilizzi tutte le tecniche allevatoriali conosciute, lascerà comunque un’ombra comportamentale per almeno quella generazione. 




Concludendo


Le definizioni sono definizioni, e chi le fa - anche creando neologismi - dovrebbe avere almeno la decenza di argomentare l’iniziativa, altrimenti non dobbiamo meravigliarci se i giovani cinofili sono convinti del fatto che Pavlov sia da ascrivere alla corrente behaviorista, che mangiare carne cruda possa far diventare i terrier aggressivi, che si possa parlare di adolescenza nel cane (farò un articolo su questo tema), che al dobermann esploda il cervello intorno ai sette anni, e tante altre stupidaggini che ormai - dilagando sul web - sono entrate a far parte delle convinzioni comuni.

Non basta creare un termine dotato di forte potere evocativo per descrivere una condizione, ma bisogna argomentare seriamente attraverso delle regole riconosciute dalla linguistica generale, e che possibilmente abbiano un senso compiuto.


NB: la bibliografia di riferimento che trovate nei libri serve per capire se quello che un autore scrive è vero oppure no. Non prendete per oro colato tutto quello che viene pubblicato, ma approfondite. È solo così che può esserci una differenza tra leggere e studiare.


Claudio Mangini