Ciò che affligge i cani moderni non è altro che una delle
conseguenze evolutive di più comuni fattori antropici.
Morte le campagne, abbandonata l’agricoltura tradizionale, e
quasi del tutto estinta la ruralità,
ecco l’entrata in scena del “nuovo cane”, accanto al suo “nuovo uomo”: quello
che è capace di andare su Marte, lasciando però a casa i suoi problemi
irrisolti, le guerre, la fame, l’odio, le divisioni, le religioni belligeranti,
le dittature e lo sterminio.
Niente più guardia agli armenti, niente più caccia per
sopravvivere, niente più conduzione di pecore, niente più slitte da trainare.
Niente più di niente; se non di quel moto in cui faticosamente arranchiamo
nella corsa al ribasso della vita.
L’occhio al passato è tappato come quello di Moshe Dayan o di
Capitan Uncino, per far finta di non vedere, o vedere a metà. Fosse mai che
qualcuno giudicasse la non aderenza al nuovo sistema.
La paura del giudizio equivale all’impersonalità.
Quei cani d’un tempo non avevano bisogno di bocconcini per
essere centrati sui pastori, non avevano bisogno di mangiare vegano andando
contro ogni buon senso, né di copertine per avere una “base sicura”. Non
avevano bisogno di un kong per ottenere delle competenze, né di una pettorina o
di un guinzaglio per seguire i loro proprietari.
Non avevano bisogno di Prozac perché non conoscevano
l’ansia, né la nuova depressione decisa dal marketing moderno, e non avevano
bisogno delle classi di comunicazione per imparare a stare con gli altri.
Chi sostiene che quei cani fossero sfortunati, significa che
non ha mai vissuto. E chi non ha mai vissuto, non ha diritto di parola.
Eppure, qualcosa di quel mondo poco lontano sopravvive. Da
qualche parte, là tra gli appennini, o in una vecchia cascina che ancora parla
il dialetto locale e rifugge il linguaggio pseudo-accademico della new age
cinofila, fatta di copia/incolla con lo sputo e citazioni estrapolate nemmeno
per intero.
Non ho un Iphone e non ho un telefono con le applicazioni.
Non ho un sito che mi identifichi tra quegli “Uno, nessuno e centomila”. Me ne
fotto del sistema e del superfluo tecnologico. A volte anche di me stesso.
Torno sui miei monti, tra la mia gente e la mitopoiesi della
Sibilla; la stessa da cui l’arroganza culturale ha preso le distanze.
La Sibilla: l’unica forza che mi portò qui senza che ne
conoscessi all’epoca il valore, né il motivo; ma alla quale detti poi un senso
profondo e compiuto che andava ben oltre la mitopoiesi.
Porterò con me i cani, forse gli unici esseri viventi in
grado di capire l’accettazione di un assunto che diventa evergreen ogni volta
che si parla di loro.
<<La vita in montagna è dura>> disse un anziano
vedendomi affaccendato nel trasloco.
Mentre tutti se ne andavano, voltando le spalle a quell’amnios
avvolgente che ogni sangue porta in se, io arrivavo per rinascere.
D’altra parte mi aveva già rodato la Maremma; quella amara,
della fatica e da coltivare.
Quella che ti leva il sangue e provoca sudore. Quella delle
zanzare, delle bestemmie e dei tafani, ma anche quella delle chiavi nella porta che invitavano
il disatteso ad entrare senza remore.
Sono stufo del pietismo dilagante quando si parla di cani,
di chi crede che l’uomo sia ossessionato dall’obbedienza e dal controllo,
quando i numeri parlano da soli: milioni di cani in Italia che fanno semplice
compagnia contro una percentuale che non supera l’uno per mille di chi li vede
ancora ausiliari di un qualcosa che è stato sconfitto.
Sconfitto chi? E da chi?
Da un gigante chiamato denaro e dalla sorella – circonvenzione
di incapaci - mentre i cinofili erano lì
a ridere con la fionda giocattolo sperando di strappare un David di
Michelangelo alla storia.
Siamo sicuri?
No.
Chi è stato sconfitto è quel cane di un tempo; il cane
stesso.
Sconfitto da chi inneggia allo sterminio del genere umano guardandosi
bene di fare harakiri per primo.
Sconfitto da un mondo che paradossalmente proprio oggi, più
che mai, orbita intorno all’uomo, profondamente diverso da quello di un tempo
recente in cui l’uomo ne faceva solo parte.
E lo si vede ancora oggi dopo che il terremoto ha raso al
suolo interi villaggi lasciando i fantasmi a banchettare tra loro.
Lì (qui) c’è la voglia di ricominciare, ma di starsene per i
fatti propri. Esattamente come me.
Quindi, cari allevatori di cani, il problema è solamente
vostro.
Dovete produrre animali senza anima antica, senza
carattere, senza bisogni se non quelli di ammazzare la solitudine umana, e con
caratteristiche definite oggi – e solo oggi – “lecite”. Possibilmente in scala
pantone, cosicché possano fare pendant
con l’arredamento dei vostri nuovi clienti.
Quel cane di un tempo non è più desiderato. E’ sgradito.
Sgradito il suo latrato, il suo abbaio, il suo bisogno
costante di stare al fianco dell’uomo. Sgradito il suo temperamento e ogni sua
vocazione elettiva.
Se potete, selezionateli senza l’organo di Jacobson, così
scomodo a chi produce diplomi sulla base delle posture e della vista canina. E,
fra che ci siete, eliminate anche quelle fastidiose vibrisse ed il pelo lungo
che mal si sposa con i cappottini à la page.
Chi doveva portare luce, ha portato smarrimento, confusione.
E quindi specializzatevi secondo le direttive antropocentriche di quelli che inneggiano
all’anti antropocentrismo. Ma solo a quelle!
Create spazi per la libertà dei cani trovando un accordo con
le Istituzioni, perché oggi la libertà di questi animali non è rappresentata
dallo stare insieme all’uomo e collaborare con lui, ma da un Regno Anarchico
dove l’ozio e le minzioni rappresentano il massimo dell’intellettualità canina.
E fuggite dal passato: annientatelo.
Datevi da fare allevatori: il nuovo uomo ha bisogno di un
nuovo cane da postare su facebook.
Fatevi i selfie, sputate su Lewin, su Lorenz, sull’etologia
e sulle scienze sociali. Sputate pure su Jung, su Murrell e su tutto ciò che
antecede l’epoca dei social e della web economy.
Non c’è transumanza senza tratturo, così come non c’è
pastore senza cane, gregge senza pecore, cibo senza agricoltura.
Tutto è intensivo, perfino i pensieri, fabbricati in
batteria per i polli del terzo millennio che consumano dogmi con la voracità di
una locusta, senza guardare in faccia nessuno. Meno che mai la fronte del
tempo che baceranno ispirandosi a Giuda Iscariota.
L’uomo evoluto ha bisogno della donna evoluta, della
famiglia evoluta, e di figli evoluti.
Il cane non fa eccezione: se vuole stare al passo di questa
evoluzione, deve evolversi anche lui, ma questa volta con l’assenso del nuovo
Verbo, altrimenti il giudizio ricadrà sulle povere anime alle quali Caronte
stesso non potrà fare fronte.
Al di qua, solo l'oblio.
Qui c’è chiasso, il mio cane riposa.
Nel mare c’è silenzio: prima o poi toccherà anche al mare.