giovedì 11 gennaio 2024

Introduzione a "The hidden key"

 






Premessa


C’è chi sostiene che questa introduzione sia un manifesto. C’è chi la vede come una Stele di Rosetta del linguaggio canino, ma in realtà queste pagine sono solo un accenno del libro di etologia del cane “La chiave perduta” (“The hidden key”), scritta e pubblicata affinché i lettori possano prendere confidenza in modo esclusivo con qualcosa di estremamente nuovo nel panorama della comunicazione canina. Un tema già di per sé oggetto dei miei seminari nel biennio trascorso, questo saggio vuole preparare gli appassionati alla successiva e più ampia trattazione di vari argomenti collegati, oltre che essere uno strumento particolarmente efficacie per cominciare a comprendere il linguaggio dei cani sotto una luce diversa, sia sul fronte intraspecifico che interspecifico. Una chiave di lettura insolita, nata da un’intuizione del 1992 che ha attraversato la mia vita e che ho tentato in ogni modo di custodire gelosamente, ma che attraverso queste pagine vuole anche dare seguito ad un profondo senso di riconoscenza verso il mio maestro Paolo Villani. Fu proprio lui a dirmi «La tua carriera sarà lunga e fortunata, ma arriverà un giorno in cui dovrai restituire ai cani ciò che loro ti avranno dato». Per tutto questo, però, ci voleva tempo. E ci volevano le spalle grosse. La cinofilia italiana andava degradandosi quando ritenni che quel tempo fosse arrivato, e ciò mi mise nell’aspettativa che appartiene a coloro i quali attendono l’evolversi delle cose o un futuro migliore. Dopo “Parlare da cani, storia di una relazione” era prevista l’uscita del libro sulla Cinometria Caratteriale e poi quello riguardante il Meccanismo dei Cani Tutor, due applicazioni che nacquero grazie alla scoperta di quanto mi appresto a scrivere, ma all’epoca ritenni, e non sbagliai, che i tempi non fossero ancora maturi. Le pagine che seguono sono pertanto il frutto di un segreto personale ben custodito che ha attraversato un trentennio della mia vita, portandomi ad interpretare il linguaggio dei cani secondo una modalità che nessuno studioso aveva mai preso in considerazione: la cinetica del movimento.

Aprire una strada a nuove ricerche presuppone il fatto che si debba mettere almeno un punto di partenza, ed è questo lo scopo principale del libro, il quale mi piace definirlo come una vera e propria esposizione, un trattato, come nella migliore tradizione etologica dei tempi che furono.

Oggi i cani sono “bimbi pelosi”, non più una specie animale tra le altre. I proprietari si definiscono con orgoglio “babbini” e “mammine”, sempre meno conduttori e sempre più divulgatori del sentire di pancia, sorretti e “istituzionalizzati” da improbabili Guru corrotti dal più bieco antropomorfismo che ben si presta ad ingurgitare avidamente ingenti somme di denaro, e ciò mi porta a pensare che questo scritto non abbia in realtà un preciso target di riferimento, ma che si proponga come elemento trasversale per chi vuole scoprire e conoscere, più che vedere a grandi linee qualcosa.

Valeria Rossi, nella prefazione del mio primo libro, scrisse «…quella che ritengo la più importante scoperta e l’unica vera innovazione che il mondo cinofilo abbia visto negli ultimi trent’anni, e cioè il Meccanismo dei Cani Tutor», fotografando al contempo una criticità del settore rimasto fermo, mancante di nuovi spunti e tecniche volte a capire qualcosa di più sul comportamento dei cani.

In queste pagine viene raccontata una scoperta che anticipava di quasi trent’anni la tecnologia messa a disposizione a Marc Bekoff e l’idea di non antropocentrico del documentarista sovietico Viktor Kossakovsky (prodotto da Joaquin Phoenix, nda), che non solo permise la nascita del Meccanismo dei Cani Tutor e della cinometria caratteriale, ma aprì una strada ancora in parte da esplorare, almeno sotto il profilo sperimentale.

Negli ultimi anni c’è stato un significativo aumento d’interesse nei confronti del comportamento animale. I fattori che hanno influenzato questo trend sono molteplici, seppure siano quasi tutti riconducibili alla logica della domanda-offerta, ma la divulgazione scientifica, così come la divulgazione in genere, necessita di un linguaggio quanto più semplice possibile per arrivare a tutti. È sotto questo pensiero che ho cominciato a scrivere il saggio, inserendo nelle appendici finali alcuni approfondimenti affinché il lettore non resti spiazzato dai termini accademici o da concetti che meriterebbero una discettazione a parte.

Qualcuno si chiederà, e a buona ragione, il motivo per cui venga pubblicata un’introduzione e non direttamente il libro “La chiave perduta” (“The hidden key”), ma tutto ciò è motivato dall’esigenza di restare sul tema della ri-scoperta, vista la sua complessità. Il fatto che negli ultimi vent’anni la zoosemiotica sia stata usata impropriamente, più con supposizioni e impressioni personali che non attraverso il rigore delle ricerche sperimentali, obbliga in qualche modo a mantenere il focus senza farsi distrarre da concetti collaterali. Pensare che un cane comunichi esponendo il suo lato destro ed il suo lato sinistro, unitamente ai vari modeling che sono stati classificati, non è facile per chi, fino ad oggi, è stato abituato a vedere i segnali del cane in qualità di calmanti e non come veri e propri segni facenti parte di un flusso comunicativo molto articolato basato su tutt’altri presupposti. Basta attingere alla rete internet e dare un’occhiata alle osservazioni descritte nelle didascalie dei tantissimi video in cui la protagonista è l’interazione intraspecifica per avere un’idea della diversità di opinioni tra i professionisti, la stessa che denota la mancanza di unanimità in merito alla comprensione del linguaggio e del comportamento canino. Tutto questo si è inevitabilmente riversato sul comparto formativo che ha visto la frammentazione didattica e la nascita delle più disparate linee di pensiero che, nell’economia generale del cane e a conti fatti, non hanno dato alcun significativo contributo alle scoperte sul linguaggio o sul comportamento animale.

Ho sempre pensato che la conoscenza del linguaggio di una qualunque specie fosse determinante per comprendere il reale significato del suo comportamento, del suo ruolo, del suo sistema di status, della sua psicologia e della sua soggettività, soprattutto in questo periodo storico nel quale è possibile attingere ad una vastissima letteratura scientifica prodotta dalle neuroscienze e dall’ecologia comportamentale. Gli addetti ai lavori parlano di “posture” quando descrivono, ad esempio, un comportamento agonistico, ma spesso cadono nell’insidiosa trappola dell’antropomorfismo perché, di fatto, i comportamenti che vengono elencati sono gli stessi che osservarono a suo tempo Darwin, Lorenz, Trumler, Fox ed alcuni altri, i quali si concentrarono sulle linee generali, su quanto l’occhio umano poteva osservare, senza centrare però pienamente il focus e senza avere a disposizione la tecnologia moderna. Per fare un esempio, il punto non è osservare il sollevamento della zampa anteriore di una cane ascrivendolo genericamente ad un segnale, ma quale delle due viene alzata e, soprattutto, il feedback che produce in centinaia di soggetti, nei contesti più diversi. Lo stesso vale per il ringhio, per l’abbaio, per la piloerezione (orripilazione) che, nella maggior parte dei casi, sono segnali attribuibili al fenomeno della ridondanza, non segnali principali o di primo livello. Pur avendolo fatto in modo rigoroso, non mi è mai bastato studiare i media (infosfera e semiosfera), i significati (pragmatica) ed i segni (zoosemiotica), ma avevo bisogno di capire il perché di un certo tipo di comunicazione. Se il media rappresenta il dove, il mezzo, con cui comunica il cane, i segni emessi rappresentano il come, allo stesso modo con cui il messaggio rappresenta e racchiude il significato. Mi riferisco a tutto questo per sottolineare la necessità personale di dare una classificazione più precisa, per esempio, dei vari comportamenti affiliativi o di coesione, così come dovevo avere ben chiara la differenza tra la “dominanza sociale” ed il “presidio della distorsione comunicativa”, tra la timidezza e l’introversione, andando ben al di là dell’impressione personale e del luogo comune purtroppo ancora presente nelle valutazioni comportamentali. In sostanza, mi interessava capire cosa il cane affidasse alla comunicazione, e nella scoperta dell’esposizione del lato avevo trovato la chiave che mi permetteva di esplorare un mondo dentro al quale si evidenziavano una serie di riposte convincenti.

Questa introduzione non poteva dunque essere inserita in un libro di etologia generale della comunicazione canina quale è “La chiave perduta”, ma necessitava di una trattazione a sé che portasse l’attenzione su dinamiche comunicative mai proposte al grande pubblico, se non attraverso alcuni seminari e ai miei collaboratori più stretti.

Con la speranza che queste pagine, svincolate ormai dal bisogno di tutela personale garantito dalla presente pubblicazione, possano aprire un fronte di ricerca specifico ancora più sostenuto di quanto non lo sia già, ringrazio il Prof. Giorgio Vallortigara (Università di Trento – Animal Cognition and Neuroscience Laboratory), il Prof. Bruno Stefanon (Università di Udine - Dipartimento di Scienze Agroalimentari, Ambientali e Animali), Elisabetta Pedrocco, Massimiliana Varnier, Johannes Weibl e Francesca Genghini per il lavoro svolto in sede di ricerca sperimentale.

Il titolo di questo libro nasce da un’idea della dott.ssa Simonetta Losi che ringrazio con tutto il cuore.

 

 

 

 

Claudio Mangini




© 2021 Claudio Mangini

Titolo dell’opera: “Introduzione a the hidden key”

 Edizione italiana © 2021 ERA Edizioni

 ISBN volume 978-88-946374-0-3





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(best seller - 1° in classifica)



Per averlo scrivere a : webinar.claudiomangini@gmail.com


martedì 9 gennaio 2024

Esiste l'adolescenza nel cane?

 

Se c’è una cosa che oggi va tanto di moda dire, in nome dell'ipocrita politically correct, è che “esseri umani ed animali sono uguali”.

In questa uguaglianza trovano posto la senzienza, cioè considerare le altre specie come esseri dotati di caratteristiche biologiche e prerogative proprie degli esseri umani, la mente e la cultura (vedi approccio cognitivo-zooantropologico).

Sul fatto che gli esseri umani siano una specie animale come tutte le altre credo che non ci siano dubbi, ma sostenere che non ci siano differenze tra noi e le altre specie lo trovo piuttosto estremistico, visto che ogni specie ha caratteristiche uniche – specie specifiche - che lo distinguono perfino dai suoi parenti più stretti (nel caso dell’Homo sapiens vedi le scimmie antropomorfe).

Oltre a senzienza, mente e cultura, nel mondo dei cani si sente sempre più spesso parlare di adolescenza, intendendo quel periodo della vita che nell’essere umano va indicativamente, e soprattutto convenzionalmente, dai 10 ai 18 anni di età.



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Quando lessi per la prima volta questo termine nel mondo dell’etologia canina mi feci subito una domanda: perché nei manuali di zoologia non si trova il termine adolescenza, ma si trova quello di pubertà?

Nel tentativo di darmi delle risposte convincenti mi sono chiesto chi sia stato il primo a parlare di adolescenza nel cane, cercando al contempo una definizione che chiarisse il mio interrogativo.

Inutile dire che, una volta trovato l’autore (del quale non farò il nome), non ho mai letto una definizione che si possa ritenere tale, fatta eccezione della solita (e sbagliata) trasposizione del termine dalla pedagogia umana all’etologia canina, o all’altrettanto errata traduzione di uno scritto dei coniugi Raymond e Lorna Coppinger (Coppinger & Coppinger, 1998. Difference in the behavior of dog breeds. In: Genetics and behavior of domestic animals. Accademic Press. Temple Grandin).

In un mondo fortemente antropocentrico come quello attuale, nel quale l’antropomorfismo è paradossalmente uno dei tratti più comuni che si osservano nelle disamine dei comportamenti canini, poteva mancare l’adolescenza?



Partiamo da come questo ipotetico periodo viene declinato dal mondo della medicina comportamentale.

«Un periodo transitorio, una fase di sviluppo simile a quella degli esseri umani, il segnale dell’iniziata pubertà nel periodo che indicativamente va dagli otto e i quindici mesi di età. In questo periodo, oltre al bombardamento ormonale il cane sta cercando di costruirsi la propria identità e il suo ruolo nel gruppo “branco/famiglia. In questa fase il cane cambia il suo aspetto fisico; e questo cambiamento può influire anche sul suo comportamento. Come succede agli umani, anche il comportamento canino diviene spesso irrazionale, e proprio il modo in cui gestiremo questo periodo deciderà se siamo stati in grado o meno di crescere un adulto equilibrato e fiducioso, che si tratti di un ragazzo o di un cane» (dott. Luigi Buti – medico veterinario comportamentalista).

È evidente come in questa definizione la medicina comportamentale, che non è precorritrice del termine in ambito cinofilo, omologhi in qualche modo un determinato periodo di sviluppo umano a quello canino con relativi consigli di gestione (“che si tratti di un ragazzo o di un cane”), ma è davvero così?

 

Un altro spunto ce lo fornisce il libro: “L’età selvaggia” (2020) di Barbara Natterson-Horowitz (cardiologa) e Kathryn Bowers (biologa).


Quando lo vidi in libreria rimasi perplesso a causa del sottotitolo «Adolescenza: il viaggio epico e ribelle che accomuna animali e umani» dal quale si evince l’ennesima comparazione che – di fatto – non si trova in alcun manuale o libro di zoologia, né di etologia.

Ma andiamo alle pagine che parlano dell’adolescenza.



Come si può leggere, quando le autrici si riferiscono alla pubertà la descrivono come «…un processo biologico, avviato dagli ormoni, che ha come conseguenza la capacità riproduttiva di un animale».

Sarà infatti capitato a tutti voi di osservare un cambiamento nel comportamento del cane quando arriva la pubertà: il cane comincia a mettervi in discussione e abbandona con i conspecifici quell’ottimismo relazionale tipico dei cuccioli e dei subadulti al quale si sostituisce qualche atteggiamento agonistico.

La Horowitz e la Bowers ne parlano però in modo strettamente fisiologico, come se questo fenomeno non portasse in sé alcuna implicazione comportamentale.



Diverso è il discorso riguardo l’adolescenza che descrivono come «…una fase nella quale si fanno esperienze cruciali, si assimilano informazioni dai propri modelli e ci si mette alla prova contro i pari, i fratelli ed i genitori».

Questa frase sembra estrapolata da un manuale di pedagogia, perché i cani – in realtà - fanno esperienze cruciali e assimilano le informazioni dai propri modelli prima che arrivi la pubertà.

Dai novanta giorni in poi sono animali allontanati dalla madre, che fanno esperienze ogni giorno, misurandosi con i conspecifici attraverso il gioco, le cure alloparentali e l’interazione continua.

Stando alla zoologia, e non all’autoreferenzialità, le fasi del cane si dividono in:

- fase neonatale,

- fase del cucciolo

- fase del subadulto (alcuni autori riportano “preadulto”)

- fase dell’adulto

- fase delle stagioni riproduttive

- fase della gravidanza

- fase dell’allattamento (alcune fonti riuniscono queste ultime due fasi)

- fase dell’invecchiamento.

Ed è proprio nella fase del subadulto – quindi quando gli individui sono completamente sviluppati, ma non ancora in grado di riprodursi (sessualmente non maturi) – che accade tutto ciò che viene descritto dalla Horowitz e dalla Bowers quando si riferiscono all’adolescenza.

L’arrivo della pubertà, grazie al cambiamento ormonale e ai modelli appresi nella fase subadulta, avvia anche la scalata gerarchica, ma solo nel caso in cui il soggetto disponga di uno status (endogeno) di un certo tipo che comunque avrà già avuto modo di far emergere saltuariamente nelle interazioni intraspecifiche prepuberali, e nel caso in cui dovesse far parte di un gruppo sociale.



Ma cos’è, nell’ambito della psicologia e dell’antropologia umana, l’adolescenza?

Il primo a studiarla, proponendo un’interessante teoria (la teoria biogenetica), fu lo psicologo americano Stanley Hall (che non è Edward Hall, l’antropologo che studiò la prossemica; altra disciplina trasferita impropriamente in ambito cinofilo), considerato il padre della psicologia dell'adolescenza, il quale fece conoscere negli USA Sigmund Freud e la teoria della psicoanalisi.



Hall era molto influenzato dalle scoperte di Charles Darwin e dal concetto di evoluzione e formulò la cosiddetta “legge della ricapitolazione” (descritta da Ernst Haeckel, e sostituita oggi dalla biologia evolutiva dello sviluppo), partendo dal presupposto che lo sviluppo dell'individuo è filogeneticamente orientato nello sviluppo da bambino ad adulto, nel quale si percorrono di nuovo gli stadi della storia dell'umanità.

Stanley Hall fu il primo a rendersi conto che la mente di un bambino è differente da quella di un adolescente. Mentre il primo è fortemente interessato al mondo materiale, al mondo esterno e ai suoi fenomeni, l'adolescente sviluppa una vita interiore che si realizza attraverso una capacità d'introversione, la quale crea stati d'animo e sentimenti di un certo tipo. D’altra parte l’adolescenza è piena di sentimenti contrastanti quali dolore ed entusiasmo, tempeste emozionali, innamoramenti appassionati e irrazionali, odi ciechi, fiducia smisurata per le proprie forze e disperazione per i propri limiti, rinuncia romantica e autodistruzione. Insomma: l’adolescenza umana è l'età delle tempeste emotive. 

Le considerazioni generali di Hall, così come quelle di Freud sull’adolescenza vacillarono nel momento in cui l’antropologa statunitense Margaret Mead dimostrò insieme a Ruth Benedict che l’adolescenza è sostanzialmente un prodotto della cultura.


Le due colleghe studiarono gli adolescenti delle Isole Samoa (Oceano Pacifico), in quella che ritenevano – e lo era – una società primitiva.

L'adolescenza negli isolani era poco percepita, visto e considerato che fin dalla tenera età i bambini avevano un'educazione compiuta sulla sessualità e vivevano un rapporto quotidiano con questo fenomeno naturale.

Mead e Benedict osservarono che il passaggio dalla fanciullezza alla maturità era vissuto senza le problematiche dell'adolescenza tipiche del mondo occidentale, scoprendo che esiste una forte relazione tra l'adolescenza e il grado di complessità della società in cui essa vive. In sostanza, una società complessa e complicata come quella nostra, costringe l'adolescente a repentini cambiamenti, ed è proprio per questo che l’adolescenza diventa più lunga e soprattutto più conflittuale.

Le due antropologhe conclusero che anche nella sfera sessuale vissuta dall’adolescente si ritrova e si riflette la cultura della società nella quale vive, quindi che il soddisfacimento sia permesso come nelle Isole Samoa, oppure represso come nel mondo occidentale, l'adolescente compie scelte socialmente indicate.

Il lavoro delle due antropologhe si avvicinava molto a quella che poi si sarebbe chiamata “etologia umana”, quindi lo studio dell’essere umano in chiave squisitamente naturalistica (Desmond Morris, Richard Dawkins, Irenäus Eibl-Eibesfeldt, per fare tre nomi in ordine sparso), e una delle conclusioni alle quali giunsero fu che «lo sviluppo della personalità è influenzato contemporaneamente da fattori ereditari, culturali ed appartenenti alla storia personale». Un modello sociologico e antropologico che dà centralità all’ambiente, il quale diventa essenziale nell’evoluzione dell’adolescenza e della sua fenomenologia; un modello che si oppone a quello biologico e fisiologico (pubertà  VS adolescenza). 




In questa scalcinata cinofilia italiana il termine adolescenza – descritto puntualmente con tanto di # hashtag  - è diventato un modo per spiegare ogni problema che possa emergere con l’arrivo della pubertà canina. In una diretta Facebook ho sentito addirittura dire da un influencer che (CIT) «Il cane a quell’età è come quando noi volevamo scoparci anche il palo della luce per quanto eravamo in preda agli ormoni» senza tenere conto che i cani maschi, a differenza dell’uomo, devono avere dall’altra parte una femmina in calore che li attivi sotto questo profilo.



E qui vale la pena tornare all’antropologia, alla zoologia e all’evoluzione umana.


In tutti gli animali la maturazione sessuale precede di poco il diventare adulti. Nell’uomo le cose non coincidono affatto: tra la maturazione delle gonadi e la fine della fase evolutiva della personalità (che oggi è stata spostata a 23 anni) c’è un bel lasso di tempo. La maturazione delle aree cerebrali avviene con tempi non omogenei e differenziati, così come quella delle aree prefrontali, deputate al controllo degli impulsi e all’inibizione dei comportamenti, avviene nel cervello degli adolescenti più tardi rispetto alle altre aree.

Perché la natura abbia deciso questo nessuno lo sa, ma è presumibile che c’entri la complessità dell’essere umano, tale che per diventare adulto deve acquisire ben altre competenze che non strofinarsi con un partner o procreare come fa qualunque animale non umano. Deve sostanzialmente prendersi sulle spalle la responsabilità dell’esistenza, e quindi avere una qualche idea su ciò che questo significhi.

La nostra cultura ha liberalizzato la sessualità affrancandola dal fine procreativo e dall’affettività: due ragazzi si incontrano, si piacciono, fanno l’amore con le dovute precauzioni, e la cosa finisce lì.

Possibile che la pratica strumentale della sessualità, vale a dire esercitata solo al fine di ricavarne un piacere narcisistico, non rientri del tutto in un ordine naturale, inerente cioè la natura umana; una “forzatura” culturale?

Una risposta possibile verte sul confutare il luogo comune che nell’uomo la sessualità sia solo espressiva di un istinto naturale, ma negli animali le cose stanno così. L’istinto sessuale ha una finalità univoca: la procreazione. Nell’uomo, e solo nell’uomo (a parte i Bonobo) la sessualità si associa al piacere. Negli animali c’è solo la fregola, la quale è però una tensione istintuale programmata per scaricarsi nell’atto riproduttivo.

A che serve il piacere sessuale, uno dei più intensi che l’uomo possa provare? «A dare gusto alla vita» risponderebbe qualcuno, ma è difficile attribuire alla natura un intento del genere.

In realtà, sotto il profilo evoluzionistico, la comparsa del piacere è avvenuta in parallelo con il fatto che la femmina umana è diventata perennemente ricettiva (calore non visibile), mettendo i maschi al riparo dallo scannarsi per conquistare quella in calore.

Il piacere, associato alla perpetua disponibilità femminile, è uno stratagemma evolutivo finalizzato a incrementare i rapporti sessuali. Ma che bisogno c’era di una cosa del genere? Non sarebbe bastato l’istinto che negli animali non umani funziona benissimo? Probabilmente no, perché i rapporti sessuali umani non sono solo finalizzati naturalmente alla procreazione, ma alla necessità di farsi carico di un cucciolo prematuro e neotenico che ha bisogno di essere protetto, curato e vezzeggiato per un numero indefinito di anni.

Senza la spinta del piacere, gli esseri umani sarebbero stati indotti a pensarci non una, ma tre volte prima di correre il rischio di mettere al mondo un figlio. E infatti, capita la cosa, l’essere umano ha trovato le contromisure con la conseguente diminuzione della natalità.

Il piacere è dunque uno stratagemma che indora la pillola delle sue conseguenze, e dato che l’allevamento di un bambino impegna non solo il padre e la madre, ma un intero gruppo di persone (tant’è che da quando la famiglia si è nuclearizzata il calo delle nascite è stato continuo), era inevitabile che nascesse la famiglia come “agenzia di riproduzione sociale”.

Questo significa né più, né meno, che nell’uomo la sessualità, non comporta solo la procreazione, ma la necessità che qualcuno si faccia poi carico per anni dell’accudimento e dell’allevamento di un cucciolo terribilmente impegnativo, ed è anche per questo che la nostra specie è predisposta alla formazione di vincoli affettivi particolarmente forti dall'organigramma piuttosto esteso (madre, padre, zii, nonni, sorelle, cugini, etc.)

Posto quindi che il piacere sia un insidioso stratagemma evoluzionistico, perché gli esseri umani non avrebbero il diritto di sciogliere il nesso tra affettività e sessualità, rivendicando al contempo l’esercizio di quest’ultima in termini di piacere fine a sé stesso?

La cultura e le regole che ci diamo non servono proprio a questo? A correggere gli “errori” della natura?

Ed eccoci quindi tornati all’etologia umana e agli studi di Margaret Mead che vede nell’adolescenza un prodotto della cultura.




Chiudo questo articolo sull’adolescenza con le parole del Prof. Alessandro Tolomelli, cattedratico dell’Università di Bologna.

 

«Se pensiamo che l’adolescenza non esista allora possiamo guardare all’adolescente come a un soggetto in carne e ossa e non come a un simulacro bersaglio di stereotipi e pregiudizi che hanno la funzione di rassicurare chi guarda, ma non sono utili per instaurare una relazione significativa e finalizzata alla formazione del sé. Agire come se “l’adolescenza non esistesse” è infine un modo per praticare una dissidenza pedagogica rispetto alle regole e norme del modello dominante nel mondo adulto e indicare così una possibile direzione di vita più indipendente anche per gli ex adolescenti».

 

Ricordate: negli animali non umani esiste la pubertà, non l’adolescenza. Ecco il motivo per cui non troverete mai questo termine nei manuali di zoologia o nei libri di etologia.


Claudio Mangini




NOTA: sicuramente alcuni lettori esclameranno «Ehhh va beh! Adolescenza o pubertà è uguale: basta farsi capire dalle Sciuremarie!» ma personalmente ho mai amato questo atteggiamento semplicistico, spinto più dalla povertà di contenuti che non dal bisogno di arrivare a più gente possibile. I termini hanno un senso compiuto, e credo che molti di loro siano utilizzati impropriamente per semplice ignoranza.


Autori di riferimento: Stanley Hall, Ernst Haeckel, Margaret Mead, Desmond Morris, Richard Dawkins, Terrence Deacon, Massimo Recalcati, Jean Piaget, Luigi Anepeta, Alexa Colgrove Curtis, Alessandro Tolomelli, Irenäus Eibl-Eibesfeldt, Stefano Laffi, Erik Erikson, Robert James Havighurst, 

Per maggiori approfondimenti scrivere alla mail manginiclaudio@yahoo.com

lunedì 8 gennaio 2024

I lupi del Mulino Bianco

 


Partiamo da questo post della pagina Facebook Biologicamente del 7 gennaio 2024.








La cosa che colpisce è la frase, di stampo promozionale, di un’educatrice cinofila la quale, nel leggere e condividere questo post scrive «… e se lo dice Biologicamente» abbellendo il tutto con un bel cuore.

 



Seppure si tratti di uno scritto che quantomeno allega uno straccio di fonti, tutto il testo gira su un (falso) equivoco relativo alla figura del “lupo Alpha”, equiparato dalla famigerata "opinione diffusa" ad un (CIT) «boss che impone il suo status sociale da bulletto, colui che, prima di tutti, avrebbe il sacrosanto diritto di sguinzagliare il suo pipo lupesco e inseminare la sua regina: la femmina alfa».

In sostanza, questo curioso animale sarebbe – secondo il sentir comune - un bullo di periferia dal primario accesso all’accoppiamento, e per specificare meglio, l’autore conclude il suo pensiero con (CIT) «…è come se ci fosse una sorta di gerarchia: re e regina al vertice della piramide, seguiti dal maschio beta fino al maschio omega, quello maltrattato da tutti i lupi che lo precedono. Quindi, il lupo alfa esiste? No».

In realtà, da quali ricercatori o studiosi del lupo l’autore abbia letto tutte queste cose resta un mistero. Diciamo che forse fa leva sul famoso “sentito dire” dell’altrettanto famoso “cuggino” che peraltro non ho mai sentito con le mie orecchie. In subordine mi viene però l’idea che a promuovere tutte queste sciocchezze possa essere stato qualcuno del mondo cinofilo, ma anche in questo caso, nessun collega è mai venuto a dirmelo di persona. Mistero.



Prendendo dunque per buono quello che l’autore scrive, in assenza di fonti, veniamo al contenuto.

(CIT) «Il lupo Alpha non esiste».

Esiste eccome; così come esiste una coppia Alpha: peraltro l’unica a riprodursi. E fu proprio lo stesso Prof. David Mech (citato tra le fonti) a dimostrarlo dopo aver preso una clamorosa cantonata nella quale riprendeva e avallava gli studi fatti nel 1947 dallo studioso Rudolph Schenkel. Anzi: il Prof. Mech, una volta accortosi dell’errore, dovette andare in causa con l’editore del libro “The Wolf: Ecology and Behaviour of an Endangered Species” (1970) per toglierlo dalla circolazione e vietarne le ristampe, ma senza successo. Vale la pena sottolineare che nello stesso libro viene introdotto il concetto di “capobranco” e di “alpha roll”, così come credo sia giusto ricordare che Rudolph Schenkel, però, scrisse nella prima pagina che le sue osservazioni erano state fatte su animali in cattività, esprimendo al contempo possibilità di errori proprio per questo fatto.



Biologicamente continua poi nella sua arringa scrivendo (CIT) «In natura, in un branco di lupi, la figura del maschio alfa non esiste» omettendo di specificare «quel tipo di maschio Alpha» - quello descritto dal fantomatico cuggino - ma non stupisce, visto che tutto l’articolo sembra voler descrivere il lupo come un animale uscito dalla pubblicità del Mulino Bianco, ed è comprensibile visto il periodo storico che stiamo attraversando: un brutto momento in cui ogni scritto o azione è sotto il ricatto dell’ipocrita politically correct (che nelle discipline zoologiche non esiste).

Ma sì: diciamo quindi che “un branco di lupi è più simile ad un’impresa familiare iscritta al registro fornitori della Disney” – cosicché aumentino i like e gli iscritti al canale. Lasciamo da parte la zoologia, visto che perfino nei moderni corsi per istruttori cinofili non si dice più la verità etologica dei cani, ma ciò che gli iscritti vogliono sentirsi dire.

L’autore passa poi in rassegna alcuni status sociali scrivendo (CIT) «Non esistono neanche i suoi subalterni beta e omega» andando contro sia ad ogni studio delle scienze sociali che alla zoologia, la quale descrive la gerarchia come un “sistema di organizzazione che s’incontra a diversi livelli nel controllo e nell’organizzazione del comportamento” (dizionario di etologia, Danilo Mainardi et altri). Sempre la stessa disciplina, così come l’etologia, descrive in modo piuttosto documentato il ruolo degli helper (chiamati anche “balia” – che sono dei “Beta” specializzati), piuttosto utili per la crescita dei cuccioli, così come ogni ruolo e status dell’intero sistema sociale.



Ora, sappiamo bene che quello dei lupi è un gruppo familiare nel quale la coppia Alpha è l’unica a riprodursi, ma pensare che i figli siano tutti gregari è un errore piuttosto grossolano, visto che alcuni di loro diventeranno degli Alpha passata la pubertà per formare a loro volta un nuovo gruppo sociale.

Tralasciando cosa siano i “Beta” e gli “Omega” – soprattutto nei cani, i quali hanno un diverso sistema sociale ben descritto da Bekoff (2019) – dobbiamo sempre tenere presente che trattasi di bias che possono o meno esprimersi a seconda dell’ambiente nel quale vivono. Sostenere che non esistono i sistemi di status, senza addurre alcuna prova nonostante le evidenze (vedi gli helper), è tutto fuorché autorevole.

Ultimamente, seppure solo nell’Università di GOOGLE, in riferimento alla coppia Alpha si sente spesso parlare di “coppia riproduttrice”, ma questo grazie all’ipocrisia del politically correct di cui sopra, non certo per altro.


Che dire poi dell’antropocentrico «Papà lupo e mamma lupo»? O di quel “addirittura” riferito al fatto che i lupi collaborano tra di loro per favorire la crescita della prole? 

Molte persone mi hanno chiesto cosa ne pensassi di questo articolo che, come si vede, vanta ben oltre trecento condivisioni.

Volendo riassumere, direi che se l’intento del post era quello di fare divulgazione sul lupo, è a mio avviso un'occasione mancata. In questo modo non si fa certo un buon servizio alla specie Canis lupus, tenendo presente che nemmeno i bambini credono più alla famiglia del Mulino Bianco.

Di fatto, la coppia Alpha esiste, così come esistono i sistemi di status e i ruoli, ma non mi meraviglierei di leggere tra qualche anno, sempre in nome dello squallido e ipocrita politically correct, qualcosa sul veganismo dei lupi. 




Claudio Mangini

lunedì 18 dicembre 2023

La Carta Cinometrica Caratteriale

 La Carta Cinometrica Caratteriale

(tratto dal libro "Introduzione a The hidden key" - Claudio Mangini ©2021 ERA Edizioni)





«Quanto più domina la ragione critica,

tanto più la vita si impoverisce;

ma quanto più dell'inconscio e del mito siamo capaci di portare alla coscienza,

tanto più rendiamo completa la nostra vita»

 

(Carl Gustav Jung)


La Carta Cinometrica Caratteriale nacque poco prima del Meccanismo Cani Tutor con lo scopo di avere uno strumento particolarmente utile sul fronte dei recuperi comportamentali (visual thinking; cioè un modo di visualizzare una soggettività psicologica e psicometrica), estendendo la sua utilità all’ambito addestrativo.

Studiare un comportamento fino a misurarlo non significa semplicemente “pendere nota di cosa accade”, ma utilizzare le cognizioni di base con la consapevolezza delle possibili insidie. Accuratezza, rigore e attendibilità non hanno bisogno di equipaggiamenti costosi, soprattutto riferendoci ai cani e non a specie elusive o selvatiche come il lupo (Canis lupus lupus), ma di impegno, corretta modalità di osservazione e, possibilmente di un approccio accademico. Misurare un comportamento significa, per definizione, “quantificare le osservazioni assegnando loro dei valori secondo regole precise”; ed è proprio per questo motivo che tale misurazione è ritenuta necessaria da tutti i biologi e dagli psicologi del comportamento. Chi si occupa del comportamento di animali appartenenti alla stessa specie, in questo caso i cani, ritiene che i diversi individui siano in possesso di personalità distinte; impressioni che spesso possono essere confermate in maniera valida e attendibile. Allo stesso modo, anche per lo studio della personalità umana ci si avvale abitualmente delle valutazioni effettuate da osservatori. Le caratteristiche della personalità possono essere identificate con quei fattori interni e stabili nel corso dello sviluppo, che predispongono l’individuo a comportarsi in modo coerente nel corso della propria vita, distinguendo così una persona dall’altra. Nell’uomo la personalità può essere identificata da cinque fattori: energia, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva (nevroticismo) e apertura mentale. Queste misure risultano correlate con una serie di variabili tra cui la salute fisica e mentale, la qualità delle relazioni personali, la felicità, la scelta della professione, le prestazioni sul lavoro, le opinioni politiche e la criminalità (Ozer, Benet-Martinez, 2006). La ricerca sullo stile comportamentale nei bambini fa invece generalmente riferimento al temperamento, definito come l’insieme delle differenze individuali, a base innata, nello stile comportamentale, visibili sin dalla prima infanzia (Sanson et al., 2002). La valutazione degli animali può fornire informazioni utili anche per l’identificazione di quegli aspetti caratterizzanti gli stili individuali che non sarebbero altrimenti ottenibili. Questa metodologia osservativa consente di identificare nella loro globalità gli schemi comportamentali dei singoli soggetti, aspetti che rimarrebbero oscuri alla misurazione di eventi discreti, ed è in questo modo che diventa possibile identificare modelli di comportamenti che si verificano in una vasta gamma di condizioni, oltre che valutare quegli eventi che hanno luogo durante interazioni sociali anche complesse. Per esempio, Wemelsfelder, Hunter, Mendl et al. (2001) hanno lasciato che nove osservatori scegliessero liberamente i termini con i quali descrivere il comportamento di un gruppo di maiali. Le valutazioni indipendenti hanno evidenziato un accordo significativo nei termini applicati ad ogni suino, come “sicuro”, “nervoso”, “calmo”, o “eccitabile”. Una delle distinzioni che si dimostra più efficacie ed affidabile nella valutazione delle differenze di personalità di animali di specie diverse è quella tra gli individui coraggiosi e quelli timidi (Carere, Eens, 2005).  In questo contesto si inserisce la Cinometria Caratteriale, nella quale vengono presi in considerazioni quattro branche che accomunano gran parte dei mammiferi: il soggetto introverso, il soggetto estroverso, il soggetto edonista e l’individuo collaborativo.

Basta andare in una qualunque area cani per vedere le prime due differenze. In un gruppo aggregato si noteranno alcuni soggetti particolarmente estroversi, ed alcuni più riservati ed introversi. Questo ci deve far capire che, di fatto, esiste una differenza caratteriale tra le due tipologie che deve essere presa in considerazione per declinare quella soggettività della quale si sente tanto parlare, ma che si ferma all’analisi del temperamento, della tempra, della docilità e dell’attitudine di un cane.

Fu Carl Gustav Jung nel 1921 con il suo “Psychologische Typen” ("Tipi psicologici”) ad introdurre il concetto e a studiare i connotati psicologici del tratto introverso e di quello estroverso sostenendo che «i due tipi sono così diversi, ed il loro contrasto tanto appariscente, che la loro esistenza appare evidente senz’altro anche al profano di psicologia non appena la sua attenzione sia stata richiamata su questo insieme di fatti». Da Freud ai giorni nostri la psicologia ha identificato numerose tipologie di personalità, ma l'unico dato sul quale convergono i professionisti del settore è proprio l'universalità del tratto dualistico estroversione/introversione. Mentre la coscienza introversa si confronta con il mondo esterno, sul quale è affacciata attraverso i sensi, la coscienza introversa si confronta con il mondo interno, il quale viene recepito come sede della propria identità filtrando attraverso il mondo interno i dati esterni, dandogli peraltro significati soggettivi. Un cane introverso è un cane che riflette a lungo, resta sullo stimolo olfattivo molto più tempo di un individuo estroverso, ha un’andatura cauta e questo aiuta a comprendere le predisposizioni del soggetto a fini utilitaristici. Per fare un esempio, nel mondo della Protezione Civile, il cane adatto alla ricerca su macerie è un introverso, mentre quello adatto sulla ricerca in superficie è un estroverso. Introversione o estroversione classificano un modo di pensare e di conseguenza di reagire all'ambiente esterno, in base ad una tipologica visione del mondo esterno stesso. La differenza fondamentale delle due tipologie è l'attenzione particolare che una pone verso il soggetto e l'altra verso l'oggetto; una verso l'aperto, l'altra verso il chiuso: chi è attirato dall'aperto o dall'oggetto viene definito come estroverso, chi dal chiuso o dal soggetto viene definito introverso.

Scrive Susan Cain (2013) «La personalità, introversa o estroversa può servire come indicatore approssimativo della socialità. Per la loro salute mentale, gli estroversi necessitano di più interazioni rispetto agli introversi. Di fatto, per stare bene psicologicamente, gli introversi hanno bisogno di una certa dose di solitudine, di libertà dall’interazione con gli altri».

Le caratteristiche dei differenti tipi (introverso ed estroverso) provengono dal fatto che l’adattamento e l’orientamento dell’individuo si attua soprattutto mediante la funzione che in lui è più differenziata, ed è per questo che va saputa riconoscere nel cane, non solo per comprendere alcuni lati del suo comportamento, ma per migliorare anche il fronte sportivo e performativo/utilitaristico. D’altra parte molte razze si caratterizzano per tratti della personalità che li distinguono dalle altre, per esempio l’indipendenza e l’atteggiamento distaccato dei primitivi, e questo ci fa capire che i tratti possono appartenere quanto tanto alla razza di appartenenza quanto al singolo soggetto. A giocare un ruolo fondamentale c’è senz’altro la conseguenza del diverso regime di selezione applicato nelle varie parti del mondo, ma tutto ciò non inficia sulla soggettività, quanto su un lato, quello zootecnico, che va tenuto in debita considerazione.

La Carta Cinometrica Caratteriale è uno strumento della cold reading (tradotto letteralmente in lettura a freddo. È un termine mutuato dal mentalismo, e rappresenta un insieme di tecniche psicologiche volte a svelare i dettagli più profondi di soggetti sconosciuti. In ambito cinofilo la Cold Reading prevede l’applicazione sistematica della lettura dei segnali corporei, dei principi di psicologia comportamentale e del calcolo delle probabilità) che mira all’acquisizione di alcuni elementi di base, proponendosi di integrare, ma non annullare, i test comportamentali attualmente in uso. Questi sono delle misurazioni standardizzate di specifici comportamenti manifestati dal cane, evocati secondo una precisa procedura d’indagine sperimentale, ovvero sottoponendo l’animale ad una serie di situazioni controllate in cui l’unica variabile ammessa è il cane stesso. Pertanto, tali comportamenti sono selezionati poiché supposti rappresentativi della totalità del comportamento sul quale si vuole indagare (Serpell e Hsu, 2001). La medicina comportamentale, quindi il mondo veterinario e le Istituzioni, si basa su questo assunto per definire e diagnosticare una qualunque problematica comportamentale a carico di un animale domestico, al fine di intervenire con dei protocolli altrettanto standardizzati che mirino in prima istanza non al benessere animale, ma all’incolumità pubblica. Da qui ne deriva un’ampia gamma di test comportamentali a seconda del tipo d’indagine che si vuole condurre:

 

·         valutazione dell’aggressività (Planta e De Meester, 2007)

·         valutazione del temperamento dei cani nei canili sanitari e nei rifugi (Diederich e Giffroy, 2006)

·         selezione di cani per terapie assistite dagli animali (Weiss e Greenberg, 1997)

·         valutazione del temperamento in cani di proprietà (Taylor et al., 2006)

 

Parlando con diversi veterinari negli anni, per loro stesa ammissione, è però emerso che questi test presentano vantaggi e svantaggi, ma soprattutto:

 

·         forniscono risposte standardizzate,

·         richiedono molto tempo,

·         spesso non risultano attendibili sul medio termine,

·         i setting non sono spesso idonei ed influenzano la risposta comportamentale del soggetto. Sottoponendo più volte il cane allo stesso test può subentrare un processo di abituazione che va a inficiare la coerenza di indagine rendendola quindi meno valida

 

Non sono criticità di poco conto se consideriamo che dietro ad una valutazione c’è la responsabilità del benessere animale e dell’incolumità pubblica, ma occorre sottolineare che gli studi sul comportamento del cane sono piuttosto recenti e che, fino a poco tempo fa, erano ad esclusivo appannaggio del mondo medico, il quale procede non per osservazione, ma per metodi sperimentali.

La Cinometria Caratteriale, al contrario, nasce e si sviluppa sul fronte naturalistico, all’interno dell’etologia classica, della zoologia, e attraverso la psicologia sociale e canina, approfittando anche della metodologia sperimentale laddove serva. Lo scopo della cinometria caratteriale è la possibilità di declinare con estrema precisione la soggettività di ogni cane, e verrebbe da dire «Tutti i cipressi si assomigliano, altrimenti non potremmo classificarli come tali, ma nessuno è esattamente simile ad un altro», ed è proprio a causa dell’incidenza di questi fattori di similitudine e differenza, che resta difficile schematizzare le infinite possibilità di variazione del processo di individuazione, se non prendendo almeno gli elementi psicometrici di base come nel caso della cinometria caratteriale.

Ogni cinofilo, come ogni educatore, dovrebbe osservare vari piani di realtà per avere un quadro completo del cane (fisico, psichico, funzionale), altrimenti rischierebbe di restare ancorato a concetti superati, pregiudizi, o antropocentrismi attualmente molto in voga.

 

 

Definizione:

 

«La Cinometria Caratteriale è lo studio delle caratteristiche specifiche e dei tratti psicologici soggettivi del cane (cardinali, centrali, secondari, fisici). Divisa in quattro quadranti principali attraverso la definizione del tratto estroverso, del tratto introverso, del tratto collaborativo e del tratto edonista, la cinometria caratteriale individua ed identifica le caratteristiche di base del soggetto secondo un approccio euristico, empirico e multidisciplinare del comportamento canino. Lo strumento applicativo e vincolante della cinometria caratteriale è la Carta Cinometrica Caratteriale comprensiva del protocollo interpretativo ad essa allegato».


- La cinometria caratteriale è quindi la “misurazione psicologica” del singolo soggetto, la quale si ascrive e si integra nel più ampio contesto della zoognostica (scienza che studia e classifica gli animali in base ai loro caratteri morfologici, fisiologici ed alle loro attitudini). Il termine cinometria prende spunto dal cinometro, lo strumento utilizzato dai giudici nelle mostre canine per misurare l'altezza al garrese dei cani e la loro larghezza toracica (anche se quest’ultima, solitamente, si misura con un metro a nastro), e non va confusa con la cinometria (misurazione e classificazione dei cani (cino = cane, metrìa = misurazione), né con la cinognostica (cino = cane, gnostica = conoscenza).

La cinometria caratteriale, così come la Carta Cinometrica Caratteriale, avrebbe meritato un libro a parte data la complessità della materia, ma nel libro “The hidden key - La chiave perduta” c’è un intero capitolo dedicato a questo particolare strumento, unitamente ad una vasta bibliografia di riferimento.


 Claudio Mangini


venerdì 15 dicembre 2023

I cani ferali





In un periodo storico fatto di fake news e di autocelebrazioni via social, la terminologia cinotecnica è stata una di quelle materie che ne ha fatto più le spese, grazie ad errori grossolani passati del tutto inosservati e rivenduti al gergo cinofilo con incredibile nonchalance, più per la proprietà onomatopeica ed evocativa che per il contenuto. 
È il caso del termine “cane ferale”, indicato dai nuovi cinofili come quel soggetto nato e cresciuto allo stato selvatico e senza alcun aiuto da parte dell’uomo, né confidenza con esso. Diverso per comportamento e selezione dal cane di proprietà, dal cane randagio e dal cane vagante, questo “cane ferale”, dalla tassonomia così sinistra ed inquietante, viene didascalizzato sulle pagine di vari siti, blog e social senza alcuna uniformità. Insomma: ognuno dice la sua; seppure in linea di massima si parli di cani “nati e cresciuti allo stato selvatico” (che non sono i canidi selvatici).




Alcuni lettori mi hanno chiesto se fossi al corrente del motivo per cui la traduzione così impropria di “feral dog” – cane selvatico – sia diventata d’uso comune tra i professionisti del settore, e soprattutto, chi l’abbia tirata fuori per primo, e in quale contesto.

La prima persona che ha utilizzato questo termine è stata la dott.ssa Barbara Gallicchio nel suo libro “Lupi travestiti” (2001, Edizioni Cinque) all’interno del capitolo XXV “Cani che vivono liberi”, citando una ricerca del Prof. Luigi Boitani e della dott.ssa Maria Laura Fabbri.




Gallicchio scrive:

«In tutto il territorio nazionale sono stati stimati 800.000 cani che vivono liberi, di cui il 10% possono essere definiti “ferali” cioè, che vivono senza contatti diretti né dipendenza dall’uomo (Boitani & Fabbri, 1983

Purtroppo però di questa definizione – “cane ferale”, appunto - non c’è alcuna traccia nel lavoro di Boitani e Fabbri; lavoro peraltro definito dallo stesso Boitani come “formale”.




Anzi! Gli autori raggruppano le tipologie di cani oggetto dello studio in queste categorie:


l) Nella prima categoria sono inclusi i cani ufficialmente iscritti nei Registri Comunali.

 

2) Nella seconda sono inclusi cani che hanno un padrone ma non sono registrati ufficialmente.

 

3) Nella terza sono inclusi i cani randagi, quelli cioè senza padrone che vagano nei pressi degli insediamenti umani e che sono in qualche forma dipendenti dall'uomo per l'alimentazione o perché ne ricercano attivamente la presenza e la compagnia.

 

4) Nella quarta sono inclusi i cani inselvatichiti, quelli che hanno riguadagnato una indipendenza pressoché assoluta dall'uomo da cui rifuggono come animali selvatici. Pur venendo spesso vicino a paesi e case alla ricerca di cibo, questi cani evitano l'incontro con l'uomo, si spostano di notte, vivono in branchi, uccidono facilmente animali domestici e si comportano in maniera molto simile al lupo (Boitani, 1982).


Il grande successo editoriale del libro di Barbara Gallicchio fece sì che la traduzione impropria di “feral dog” si espandesse e cominciasse a fare presa sui neofiti dell’epoca, fissandosi indelebilmente nel loro modo di intendere i cani che vivono allo stato libero.

Ma perché “feral dog”? E cosa c’entra con il termine italiano “ferale”? Perché utilizzare impropriamente una ricerca del Prof. Boitani nella quale non c’è alcuna traccia di questa parola?

Partiamo dal presupposto che la lingua della scienza è l’inglese, e che pertanto tutte le ricerche scientifiche sono scritte in inglese. Questo fa sì che quando ci si riferisce ad un cane rinselvatichito si parli di “feral dog”. In sostanza siamo di fronte ad un anglismo, cioè ad una parola inglese che viene recepita in un'altra lingua; in questo caso l’italiano.


Nove anni dopo l’etologo Danilo Mainardi dovette fare i conti con questa traduzione sbagliata nel suo libro “Il cane secondo me” (2010, Cairo Editore); e ben inteso: “farci i conti” non significa essere d’accordo, ma dover prendere atto che un termine è entrato nel gergo comune e, per quanto possibile, dare una spiegazione valida a sostegno della cosa. 




Sotto questa spinta Mainardi fece però qualcosa in più, cercando di assegnare al termine feralità un senso scientifico e zoologico.

Se ci sia riuscito o meno non lo so, ma resta il fatto che la massima autorità della lingua italiana (Accademia della Crusca) sostiene (CIT) «la trattazione degli anglismi non ha il valore di un battesimo o di una certificazione» - e se infatti cercate il termine “feralità” su un qualunque dizionario italiano, non lo troverete (si ricorda che WIKIPEDIA ed i blog autoreferenziati non sono dizionari della lingua italiana).

Per Mainardi la feralità è una condizione; uno stato. Qualcosa che lui stesso ritiene nuovissimo, ma al tempo stesso antico. Una dicotomia pericolosa e poco accettabile per i puristi che si occupano di scienza.

Anche lui utilizza, seppure meno impropriamente, una ricerca del 1994 del Prof. Boitani (Comparative social ecology of feral dogs and wolves, Boitani e Ciucci, 1995, pu. 2010) nel quale venivano confrontati alcuni tratti socio-ecologici dei cani selvatici (feral dogs) e dei lupi al fine di comprendere l’ecologia sociale di questi cani in termini di adattamento, e per valutare in quale misura il processo di domesticazione abbia o meno alterato i modelli socio-ecologici del lupo.





Per “feral dogs” (tradotto in italiano in “cani selvatici”) Boitani e Ciucci intendono però quei cani (CIT) «senza cibo, né riparo intenzionalmente fornito dagli esseri umani»; quindi dei cani selvatici o – come scrive lo stesso Boitani - “rinselvatichiti”.

Il progetto durò tre anni e si svolse in Abruzzo, regione italiana dal randagismo modesto, se messo a confronto con altre Regioni italiane.

Nell’articolo Boitani descrive i cani rinselvatichiti come vengono ancora descritti oggi, cioè soggetti schivi, senza alcuna confidenza nei confronti dell’uomo e vaganti sul territorio.

Mainardi invece, nell’intento di chiarire il neologismo “feralità” ne descrive in prima battuta la storia.

 

Riporto il suo testo.

«Il linguaggio specialistico produce parole strane, che spesso fanno inorridire i puristi e che magari sembrano poco utili. Sono vocaboli che tendono a definire fenomeni nuovi o, se non altro, che si propongono all’attenzione con una forza prima inesistente. È il caso, per la zoologia, del termine “feralità”, che, oggettivamente, non indica un fenomeno nuovo. Rimane, però, un problema purtroppo sempre attuale. Perciò, probabilmente, è nato il neologismo, che poi sarebbe (come ormai avviene quasi sempre per la scienza) un anglismo. Perché la sua origine “feral”, aggettivo che non ha niente a che vedere con il nostro “ferale” (una ferale notizia). Feral, in inglese, vuol dire, grosso modo, rinselvatichito».

(“Il cane secondo me”” – Danilo Mainardi, 2010, Cairo Editore)


Mainardi pertanto chiarisce senza mezzi termini l’esatta traduzione di “cane ferale” in un più normale “cane rinselvatichito", e varrebbe la pena sottolineare che questo termine è stato ampiamente usato anche dal Prof. Boitani, oltre che nei lavori scientifici di cui sopra, nelle varie presentazioni dei suoi lavori e durante i congressi che riguardavano la mitigazione del conflitto tra il lupo (Canis lupus italicus) e gli allevamenti di animali da reddito.

L’etologo, sempre nel suo libro “Il cane secondo me”, passa poi a descrivere il termine “feral” portando l’esempio di altre specie «Sono feral, per esempio, i colombi delle piazze» (ibidem) facendo eco alla ricerca di Boitani e Ciucci nella quale si inserivano nella lista dei "feral" anche i suini sfuggiti all’uomo e riprodottisi allo stato selvatico senza l’incrocio con i cinghiali. In tutto questo Mainardi non abbandona mai la traduzione fedele di “feral”, cioè di “cane rinselvatichito”.

 Da qui, sempre Mainardi, spiega poi il suo punto di vista cercando di dare al termine “feralità” un connotato e una valenza zoologica. 

«E allora perché feralità? Non sarebbe meglio rinselvatichimento? Forse, ma la lingua internazionale della comunicazione scientifica è l’inglese, ed è quindi intorno a ferality che s’è lavorato con le definizioni, con sottili distinguo. Per lo specialista ormai feralità ha - come potrei dire? - una maggiore precisione, una sorta di valore aggiunto rispetto a rinselvatichimento. Insomma, è anche così che nascono i neologismi. Veniamo però al concreto, e consideriamo il cane, che è animale domestico per eccellenza, e il suo corrispettivo selvatico, il suo antenato lupo. Ebbene, tra lo stato di domesticità e quello di selvaticità esistono altri stati, ed è in quest’àmbito che si colloca la feralità» (ibidem).

In sostanza, queste parole tendono più a giustificare un errore semantico che non dare valore scientifico al termine “cane ferale” adducendo una collocazione ecologica di questi soggetti a metà strada tra il cane ed il lupo non proprio vera.

Personalmente non vedo alcuno stato di “feralità” (cosa sarebbe poi?) nei cani rinselvatichiti, visto che sono a tutti gli effetti dei Canis lupus familiaris e si comportano come quei randagi e vaganti che non hanno alcuna confidenza con l’uomo. Si cibano di immondizia, rifiuti antropici e scarti umani, mangiano qualche gallina quando gli va bene e vivono di quel che trovano. È vero, formano gruppi molto più piccoli e più compatti rispetto ai randagi e sono spesso imparentati tra di loro, ma qualunque professionista del comportamento canino che ci abbia lavorato li vede come soggetti affetti da sindrome da privazione sensoriale, tipica di quei cani che sono cresciuti in ambienti poveri di stimoli. L’unicità, se così vogliamo chiamarla, sta nel fatto che i cani rinselvatichiti sanno cavarsela in ogni situazione, purché lontana da fattori antropici. Sanno trovare l’acqua, sanno risparmiare le loro energie, sanno essere elusivi e fiutare i pericoli come qualunque animale selvatico; sanno vivere nella natura. Ma è proprio per questo che nessuno – prima della dott.ssa Gallicchio – li ha mai definiti “ferali”, ma più semplicemente rinselvatichiti.

Tornare ad una condizione selvatica significa solo essersi appropriati sotto il profilo ontogenetico di alcune abilità che i cani randagi e i cani di proprietà non hanno, ed aver subito una pressione selettiva che li ha temprati un po’ sotto il profilo genetico. Questo però da una parte non cambia il loro status di Canis lupus familiaris, perché un lupo tolto alla madre nei suoi primi giorni di vita e cresciuto dagli umani, resterà sempre un lupo, e la sua condizione selvatica prima o poi salterà fuori (vedi i vari American Wolf Hybrid ad alto contenuto sfuggiti ai proprietari). Secondo Boitani, quindi, un animale domestico che ritorna in un paio di generazioni allo stato selvatico è appunto un “rinselvatichito”; non un “cane ferale” (semmai un “feral dog”).






Nella frase di Mainardi «tra lo stato di domesticità e quello di selvaticità esistono altri stati, ed è in quest’àmbito che si colloca la feralità» l’etologo non chiarisce affatto i connotati della feralità, ma si limita a mettere un mattone sul quale eventualmente argomentare e discutere la questione; il che è molto diverso.

 

Quindi perché non chiamare questi cani “ferali”?

Nella lingua italiana, come ha sottolineato lo stesso Mainardi, il termine “ferale” indica un cattivo augurio, un cattivo presagio, qualcosa di funesto. Ma il funesto – come sostiene un caro amico professore di filologia – «lascia in un silenzio sbigottito, mentre il ferale spaventa in maniera più accesa».

 Ferale” deriva da “fera”, femminile di ferus, “feroce”. Il più atavico terrore dell’uomo, dal profilo fiero (stessa etimologia). Quella fiera che oggi è nelle rappresentazioni cinematografiche come qualcosa che non conosciamo e ci fa paura, ma che riecheggia nelle fiabe del passato e negli archetipi junghiani.







Perché dare a questi cani un connotato così sinistro quale è il termine “ferale”? È vero che si dice anche “lupo nero”, ma di melanici in Italia non è che ce ne siamo poi molti, ed in ogni caso, sono lupi come gli altri 😉

 

Allora il termine corretto è "cane rinselvatichito”?

Anche se quello è almeno il vero termine utilizzato dal Prof. Boitani nelle sue ricerche, pertanto dotato di liceità, secondo me non lo è per il semplice motivo che in zoologia il termine “selvatico” è riferito esclusivamente a specie animali mai addomesticate dall'uomo.

Un Mustang o un cavallo del Namib è chiamato “selvaggio”, non selvatico (la differenza semantica non è proprio sottile). E lo stesso vale per la nostra specie, quando il mondo occidentale incontra per la prima volta conspecifici del Borneo o della foresta Amazzonica: si parla di uomini selvaggi"; non "selvatici".



Loro sanno vivere nella giungla, mentre noi europei no. Questo da una parte li avvantaggia nel loro ambiente, ma li penalizza nel nostro.

Alla fine è quindi solo una questione ontogenetica, perché se prendo una coppia di cani rinselvatichiti e li porto a Milano crescendo i loro cuccioli come se crescessi un Golden Retriever, magari con tanto di biosensor, otterrei dei cani di proprietà abbastanza normali * esattamente come se prendessi un bambino di pochi giorni dalla giungla e lo facessi crescere da una madre italiana facendolo vivere nel centro di Roma.

Ma di più, quello che Danilo Mainardi definisce uno stato, non è necessariamente definitivo, ma una condizione che può essere transitoria, e lo dimostra il numero dei cani rinselvatichiti che io, e tanti altri colleghi, abbiamo lavorato negli anni.


(coppia di cani rinselvatichiti lavorati c/o il mio centro con l'ausilio di cani spalla)


Gli allevatori selezionano i loro riproduttori sulla base delle attitudini di razza, dell’aderenza morfo-funzionale allo standard e del carattere. Questo significa che di una coppia di cani rinselvatichiti, quindi nati da almeno una generazione allo stato libero, non si può sapere nulla in merito al carattere, né cosa potranno passare sotto il profilo genetico. Sappiamo però che la madre è la massima insegnate dei cuccioli fino ai 90/120 giorni, e questo fattore non è sottovalutabile. Una madre rinselvatichita insegnerà buona parte del suo mondo alla progenie e questo, seppure io utilizzi tutte le tecniche allevatoriali conosciute, lascerà comunque un’ombra comportamentale per almeno quella generazione. 




Concludendo


Le definizioni sono definizioni, e chi le fa - anche creando neologismi - dovrebbe avere almeno la decenza di argomentare l’iniziativa, altrimenti non dobbiamo meravigliarci se i giovani cinofili sono convinti del fatto che Pavlov sia da ascrivere alla corrente behaviorista, che mangiare carne cruda possa far diventare i terrier aggressivi, che si possa parlare di adolescenza nel cane (farò un articolo su questo tema), che al dobermann esploda il cervello intorno ai sette anni, e tante altre stupidaggini che ormai - dilagando sul web - sono entrate a far parte delle convinzioni comuni.

Non basta creare un termine dotato di forte potere evocativo per descrivere una condizione, ma bisogna argomentare seriamente attraverso delle regole riconosciute dalla linguistica generale, e che possibilmente abbiano un senso compiuto.


NB: la bibliografia di riferimento che trovate nei libri serve per capire se quello che un autore scrive è vero oppure no. Non prendete per oro colato tutto quello che viene pubblicato, ma approfondite. È solo così che può esserci una differenza tra leggere e studiare.


Claudio Mangini