Pensare che un cane debba per forza vivere con altri cani è
profondamente sbagliato, ed ha poco a che vedere con l’etologia classica o le
scienze sociali, creando al contempo un pericoloso modo di pensare l’animalità
della quale ogni cane è fatto.
(foto di Sara Dentice)
Sempre più spesso leggo di sedicenti addestratori o
allevatori che fanno paralleli impropri – molto impropri – con i cani randagi, con i cani ferali, quando non addirittura con i lupi che vivono sul nostro appennino.
Su questo falso ideologico - ed etologico - sono nate le inopportune
“classi di socializzazione”, e non si contano i casi arrivati negli anni da me
in recupero con squilibri sociali piuttosto evidenti a causa di simili
iniziative.
Quando si affronta questo tema dobbiamo partire da un
presupposto: i cani randagi, come i lupi, si scelgono; non vengono aggregati forzatamente ad individui con i quali non hanno nulla a che spartire sotto il profilo
familiare o relazionale.
Pur essendo animali sociali, i cani non vogliono vivere con
altri cani, ma con le loro appartenenze socio-familiari, con le affinità di cui
sono composti e con personalità che siano compatibili; senza contare le
soggettività che spesso sono capaci – da sole - di perforare le maglie delle
leggi naturali.
Il fatto che i cani siano animali molto adattativi non deve farci
cadere nella trappola del pensiero antropocentrico, il quale pretende di far
andare d’accordo tutti a prescindere dai più svariati fattori filogenetici, ontogenetici,
pedomorfici e attitudinali (Carta Cinometrica Caratteriale docet).
In una cinofilia moderna, sempre più proiettata verso la
consapevolezza di cosa sia un Canis familiaris, sul quale peraltro insistono
regole civiche di ogni ordine e grado, sarebbe auspicabile che in sede
didattica si affrontassero temi di ben più ampio respiro, e non limitati al
behaviourismo di vecchio stampo.
Claudio Mangini