mercoledì 8 agosto 2018

Il piccolo Principe: quando tutto rporta





Il titolo di questo articolo non ha un verbo sbagliato.
Nel dialetto marchigiano “rportare” significa “quadrare” – tutto rporta; tutto quadra.
Ma cosa c’entra il dialetto marchigiano con il racconto di Antoine de Saint-Exupéry?
E, soprattutto, cosa c’entra tutto questo con la cinofilia?

Del mio primo seminario, tenuto ormai oltre quindici anni fa, ho un ricordo preciso, a parte il luogo dove si svolse e la mia incredulità dovuta al fatto che fossi stato chiamato a parlar di cani da qualcuno che non conoscevo.
In quella sede, dopo che mi avevano presentato, esordii con una frase che ammutolì i presenti:

<<L’essenziale è invisibile agli occhi>>

La Cinometria Caratteriale aveva già compiuto una decina d’anni, e con lei, il Meccanismo dei Cani Tutor, il quale era già stato setacciato dal mondo della ricerca scientifica.
Il pubblico venne sostanzialmente per queste due novità e per osservare da vicino il mio  modo di lavorare con i cani, ma restarono particolarmente colpiti dalla lezione - mi si passi il termine – “a titolo di prefazione” che tenni sul racconto “Il piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, dal quale il sintagma è tratto.
Restai così colpito dall’interesse suscitato che ancora oggi, sia con i miei allievi che nei miei seminari, piuttosto che in teatro, lo ripropongo sempre volentieri.

Per far comprendere al meglio la serie di parallelismi che di lì a poco avrei snocciolato, declinai brevemente le mie origini e un piccolo spaccato della mia vita.
Tutti sapevano più o meno che arrivavo dalle Marche, che avevo metà sangue nord-europeo, che sono cresciuto tra Milano e la  Maremma, e che  amo indossare il kilt.
Pochi però conoscevano il motivo per cui scelsi proprio l’appennino marchigiano per vivere, pur non avendo apparentemente nulla a che spartire con quella terra.



Al di là della casualità degli eventi che mi ci condussero, e la biodiversità che ogni etologo o naturalista vorrebbe avere a portata di mano, decisi di restarci perché qualcosa di non conosciuto, di nascosto, quanto di magnetico, si impresse in me nel momento in cui mi trovai di fronte al Monte Sibilla – o “La Sibilla” - come confidenzialmente la chiamo .

Si sa: la montagna – per René Daumal – è “la porta visibile dell’invisibile” - “il legame tra la terra ed il cielo”, e per tentare dunque un’esplorazione di tipo filosofico de “Il piccolo Principe”, decisi di partire dalla tradizione dei Monti Sibillini e degli esseri fatati che lo abitano: i “Mazzamurelli”.



Da secoli, coloro che abitano queste terre sono certi di una cosa quando vedono i cavalli lasciati liberi al pascolo tornare di sera con le criniere intrecciate: a pettinarli così sono stati alcuni esseri fatati.
La tradizione popolare sibillinica raccomanda vivamente di non strecciare in nessun caso i ricami che si scoprono tra le criniere, perché si attirerebbero su di sé le ire e i dispetti malefici dei Mazzamurelli.

In realtà, dentro questa credenza – come nel racconto di Saint-Exupéry - è celato qualcosa di molto più profondo: una visione ben precisa della realtà.
Ed ecco il dato filosofico.
Quando si dice che “nello scoprire le criniere dei cavalli intrecciati noi percepiamo la presenza degli esseri fatati” è come se la tradizione popolare riconoscesse all’interno della realtà qualcosa che non si mostra in evidenza; qualcosa che non si porge ai cinque sensi: qualcosa di invisibile agli occhi.
Gli essere fatati della tradizione dei Monti Sibillini – che non a caso si chiamano così - ci raccontano che essi esistono, pur non apparendo. Ed ecco per cui le criniere dei cavalli non debbano essere strecciate.
In sostanza, fuori dalla metafora ci dicono che la realtà non si esaurisce con l’esperienza empirica.



L’essenziale è invisibile agli occhi” non è dunque solo la citazione di uno dei più grandi testi di filosofia del 900, ma la sorgente – la base - del mio lavoro con gli animali.
Sotto la superficie del racconto trovate Jung e de Saint-Exupéry in una mirabile sintesi. Trovate gli archetipi,  il profondo, l’inconscio, il “genius loci” (lo spirito di un luogo, e quindi della cultura che lo abita e che ha prodotto le razze secondo una funzione tipica del luogo e del contesto); i “significati” ed i “significanti” (tanto cari al mio Maestro Carmelo Bene), passando per le facoltà gnoseologiche di Lorenz, estendendosi a Shakespeare in un lunghissimo e articolato legame.

Tornando al racconto di Antoine de Saint-Exupéry, uno dei due grandi segreti che la volpe rivela al piccolo Principe prima di andarsene è infatti <<Non si conoscono che le cose che si addomesticano>> e sono proprio queste cose di cui bisogna avere cura.
Da qui la ricerca filosofica del termine “domestico” – da “domus” – casa. Del “fidarsi” e “affidarsi”. Del “non poter fare a meno”.
Dalla casa, alla famiglia, al legame, alla fiducia, all’affidarsi, al concetto di cura: il passo è breve quanto conseguente.
Un legame, quello dell’addomesticare, che diventa “pericoloso” e a doppio taglio a causa della forza emotiva impressa e sigillata dall’inevitabile “prendersi cura” (“keepers” – come veniamo chiamati in animal training) che la domesticazione chiede in cambio.

Eccoci così giunti filologicamente a Piero Scanziani e al concetto di coevoluzione (Senza cane, niente uomo), molto vicino ai concetti gnoseologici di base descritti da Lorenz ne "L'altra faccia dello specchio".

Tutto torna. Tutto rporta. E scandaglia le parti più profonde del pensiero. Un termine – “pensiero” – che fino a pochi anni fa era riservato solo alla specie umana.
Il sintagma (“l’essenziale è invisibile agli occhi”) invita quindi a vedere le cose in un modo più profondo, al di fuori della portata dei nostri cinque sensi e dell’esperienza empirica in sé.
Infatti, il secondo segreto rivelato dalla volpe è proprio <<Non si vede bene che con il cuore>> - ma per comprendere questo pensiero, ed il termine “cuore”,  dobbiamo partire proprio dalla gnoseologia che vuole discernere, e separare, la fantasia dalla realtà.
La visione illuminista, tanto cara ai cinofili abituati ad osservare la superficie secondo un approccio – appunto - illuminista (i cinque sensi che determinano la percezione delle cose viziando così l’osservazione), considera quell’invisibile come qualcosa di fantastico; frutto di fantasia.
Ma cos’è la fantasia secondo de Saint-Exupéry? Quanto c’è del mito Junghiano nella fantasia?
In realtà, tutto dipende da cosa intendiamo con il termine “reale”.

Se intendiamo la realtà come la testimonianza dei nostri cinque sensi (quindi del nostro corpo), significa che la fantasia è una menzogna; una mera astrazione.
Ma nel momento in cui ci poniamo però dal punto di vista della volpe (ecco il vero senso dell’alterità e dell’empatia), la fantasia non è più una menzogna, ma si trasforma in una facoltà gnoseologica – un modo più profondo di conoscere le cose, al di là del visibile - perché rappresenta un passo oltre, verso quell’essenziale che gli occhi non vedono.
Ed ecco che la fantasia cambia il suo statuto, così come la realtà cambia il nostro concetto di fantasia.

<<...ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica>>

La volpe non è quindi più l’elemento zoomorfico di una fiaba o di un mito, ma la protagonista di una nascente relazione che lei stessa vuole.
E’ proprio la volpe a chiedere al piccolo Principe di essere addomesticata; di vedere al di là del propri sensi e della propria esperienza empirica.
La volpe vuole scoprire cosa c’è al di là del proprio istinto e dentro il mondo dell’inter-specie, usando l’animo puro di un bambino: quella stessa porta sicura che media tra il proprio mondo e il non conosciuto.

Nell’osservazione e nella relazione con gli animali possiamo quindi approcciarci secondo un approccio illuministico, o secondo quello del “oltre” – chiamato “inconscio” o “profondo” del quale Freud, e l’eretico Jung, sono i padri.

“Il piccolo Principe” è in realtà un “dramma etologico”.
Dramma,  a causa del legame riportato al valore della perdita attraverso la facoltà gnoseologica del cambiamento; etologico perché sottolinea quanto la realtà non si esaurisca con l’esperienza empirica, ma vada alla costante ricerca di quel “al di là della percezione sensoriale”: la stessa che permette al naturalista di osservare ciò che è invisibile agli occhi della gente comune, partendo proprio dal senso di alterità e del mettersi nei panni dell’altro (empatia) senza alcun filtro percettivo che lo vizi di fondo.
Saper “percepire”, significa “distaccarsi dal manuale cinofilo  quanto basti per andare oltre”, così come “non visibile” non significa “meno reale”, ma “reale celatamente”: il volto nascosto delle cose e del mondo.

Quando ci immergiamo nelle leggende dei Monti Sibillini, non ci troviamo di fronte alla mera tradizione orale di un popolo analfabeta che si raccontava davanti al fuoco, ma all’equazione <<i miti e le fiabe stanno a una civiltà (Jung) come i sogni stanno al singolo soggetto (Freud)>>.
Questo è ciò che si definisce in senso sociale “l’inconscio di una civiltà”; l’essenza culturale di un popolo.
Perché se è vero che l’essenziale è invisibile agli occhi, e che quindi la fantasia rappresenta la modalità gnoseologica – il modo di conoscere la realtà oltre il velo dell’apparenza – ecco che le creature fantastiche diventano l’espressione, la modalità, attraverso cui questo essenziale ci si rivela: sono le tracce, i segni dell’invisibile.
Per fare un esempio, la fotografia rappresenta il segno di quanto ci appare, e noi – soprattutto oggi - siamo bombardati di immagini costruite ad arte, ed in grado di richiamare valori profondi che stimolano l’Io (ego freudiano) a mediare più di quanto già non faccia tra l’istintualità dell’Es e i divieti del super-io.
Cosa si celi sotto una fotografia ben congeniata, lo percepisce il nostro lato più vulnerabile quanto ingestibile sotto il profilo logico: quello inafferrabile e non visibile, ma non per questo assente.

L’identità di un popolo, nel corso della sua evoluzione, ha creato  famiglie, gruppi, condivisione, lingue, e poi dialetti (il genius loci descritto sopra). Così come ha creato i propri strumenti partendo dal contesto ambientale che obbligò in qualche modo a costruire, in senso antropologico, le necessità per sopravvivere.
Accogliere oggi queste istanze, seppure non si faccia oggettivamente parte di quello specifico contesto culturale, significa avere un senso di appartenenza: uno dei caposaldi della psicologia umana. Che sia per diritto di nascita, o che sia per scelta.

Se noi prendiamo tutti i trattati antropologici dei Monti Sibillini, troviamo questo mantra (“non strecciare le criniere dei cavalli”) ed apriamo al contempo la più famosa storia d’amore di tutti i tempi (Romeo e Giulietta – di William Shakespeare), ed in particolare la penultima scena del primo atto, Mercuzio dice a Romeo <<Mab (la Regina delle Fate) è quella fattucchiera che di notte intreccia le criniere dei cavalli e fortunati saranno coloro che le strecceranno>>.
La cosa che in questo parallelo deve far riflettere è che nessun antico abitante dei Sibillini poteva conoscere Shakespeare, e l’argomento può quindi essere trattato solo come un archetipo Junghiano che ritorna nelle diverse civiltà.
Lo psichiatra svizzero si accorse che diversi pazienti, peraltro in maggioranza analfabeti, citavano in modo preciso passi di antiche mitologie, e <<quindi – diceva Jung – dovevano andare a pescare in qualche fonte alla quale tutti noi attingiamo e apparteniamo>>.
Jung chiamò questo fenomeno “inconscio collettivo”, lo stesso che in ogni angolo della terra, tra le culture più disparate, ci fa percepire - come una sorta di archetipo - il cane.
Ad ogni latitudine il cane rappresenta se stesso nei confronti dell’uomo che l’ha addomesticato, ma pochi uomini riconoscono il cane in quanto tale.

Il cane si svincola pertanto dai cardini della moderna zooantropologia inserendosi nell’archetipo, esattamente come quella volpe confidente che invita il piccolo Principe alla domesticazione; all’interno di un “non tempo” e un “non spazio”.
Ciò che noi consideriamo superficialmente stereotipo si trasforma in qualcosa di molto più ancestrale e profondo. Qualcosa di facente parte dell’umanità stessa: un’umanità che, con l’andare dei secoli, ha ulteriormente selezionato il frutto di quella domesticazione richiamandone a livello inconscio – ogni volta – la testimonianza iniziale.
Quando nella nostra vita arriva un cucciolo, arriva una  domesticazione. Un’alterità che vuole farsi scoprire e che condizionerà la nostra vita, e così come l’ultima gioia di un Argo morente fu quella di veder tornare il suo Odisseo dopo tanti anni, la volpe riconoscerà i passi del piccolo Principe dagli altri passi.

<< …conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica>>.


(Odisseo e Argo morente)

La natura del contrasto: se non conosciamo il dolore nelle sue differenti forme, non  riusciremo ad apprezzare i sentimenti e le sensazioni che ci piacciono.
“Il piccolo Principe” è un racconto agli antipodi: da una parte la feroce attualità del “rasoio di Occam”, dall’altra l’invito di Antoine de Saint-Exupéry.
Il neoplatonico Nicola Cusano, cardinale e raffinato pensatore rinascimentale, definì l’incontro dell’uomo con il mistero insondabile del reale, come un rapporto tra la mente umana, strutturata secondo un principio di non-contraddizione, ed il limite della comprensibilità in cui gli opposti coincidono: limite oltre il quale la mente intuisce, proprio nel non poterlo comprendere, l’Uno infinito che non è altro rispetto a nessuna cosa finita, e che dunque non può essere concettualizzato nell’attività comparativa della ragione.
Nella volontà della volpe c’è la domesticazione, ma tentare di spiegare il legame - ognuno unico e irripetibile - è come tentare di spiegare l’amore.
L’attuale tentativo di omologazione delle masse cinofile nasce proprio dall'opposizione a questo fondamento. Traendo linfa dallo stereotipo e dall’inganno della moda, l’essenza si nasconde, e con lei, il desiderio puro e spontaneo della volpe descritta da Antoine de Saint-Exupéry.

Accanto alla mia tenuta gli archeologi trovarono la tomba di un guerriero celtico (i resti ed il corredo funebre sono conservati nel museo di Ancona), e semmai avessi avuto bisogno di ulteriori indizi sull’inspiegabile  mio arrivo in questa terra potrei dire “tutto rporta”. Come rporta la naturale - e quindi invisibile - predisposizione personale nel lavoro con gli animali.
Ogni volta è uno stupore. Lo stesso stupore del piccolo Principe e un non tempo che avanza pur mantenendomi giovane sotto la fotografia delle rughe.
Ed è proprio dentro questa luce, che niente mai di così invisibile agli occhi, diventa reale.


Claudio Mangini