Faccio finta, per un momento, che i lettori
conoscano gli studi di Maslow (piramide dei bisogni - detta anche "Piramide di Maslow") esponendo le criticità,
peraltro note da tempo, ed il mio personale punto di vista sulla questione.
Partiamo innanzi tutto dalla
definizione di “bisogno”.
In psicologia viene definito
come “la mancanza totale o parziale di uno o più elementi che costituiscono il
benessere del soggetto”.
Tra le sue teorie, Abraham
Maslow sottolineò il fatto che <<il soddisfacimento di un bisogno renda poco
sensibili gli individui ad ulteriori stimoli dello stesso tipo, spostando la
questione su bisogni di livello più alto>>.
All’analisi di Maslow bisogna
accreditare il cambiamento di rotta innescato dall’avvento della psicologia
umanistica, istituzionalizzata da Maslow attraverso la fondazione nel 1962
dell’American Association for Humanistic Psychology la quale, più che una
teoria sistematica della personalità umana, appare più come un insieme di
orientamenti (peraltro fondamentali nel meccanismo dei Cani Tutor).
L’elemento comune di tali orientamenti è - riferendosi ai
cani - l’aver accentuato la “tendenza attualizzante” di ogni soggetto, intesa
come capacità del cane di tutelare la propria sopravvivenza, attraverso il
soddisfacimento dei bisogni primari, e promuovere il proprio sviluppo,
soddisfacendo i bisogni di ordine superiore; e nell’analisi di Maslow troviamo
infatti insito il concetto di “cambiamento evolutivo”.
I tentativi di rivedere in
modo più approfondito e critico la teoria di Maslow e le successive
rielaborazioni, viziata e viziate da un’eccessiva semplificazione (per quanto le
seconde siano più affinate e realistiche), mi portano a non condividere alcune
incongruenze sostanziali evidenziate dall'analisi maslowiana.
In primo luogo, da un punto
di vista gestionale, vanno rilevati possibili elementi di contrasto fra il processo
evolutivo del cane e quello del contesto sociale ed ambientale nel quale è
inserito.
Se da una parte il progresso
psicologico dell’uomo è diretto a raggiungere condizioni organizzative di
autonomia ed indipendenza, in cui si possa quindi esercitare il controllo della
propria sfera di influenza, quello del cane – per etogramma - rispecchia i canoni della cooperazione tra
specie e partnership di cui è forse uno dei massimi esponenti.
Il modello di Maslow è
fortemente centrato sul meccanismo di autodeterminazione dell’individuo,
facendo risalire le spinte motivazionali esclusivamente a fattori interni,
ignorando quel principio base universalmente riconosciuto (non solo dagli
psicologi) che dice: per capire a fondo il comportamento, non si può prescindere dal
fatto che esso risulta essere la determinante dell’interazione tra l’individuo,
con le sue peculiarità, la sua soggettività e suoi schemi mentali, e le
caratteristiche ambientali. (Lorenz,
Tinbergen ed altri).
Un proprietario che volesse
utilizzare il modello della gerarchia dei bisogni, dovrebbe quindi essere un
abile psicologo, o comunque raccogliere informazioni su tutte le aree
dell’esistenza in cui i cani ricercano il soddisfacimento dei bisogni a vari
livelli, e ciò è ovviamente impossibile, a meno che non si prenda l’intera
questione per sommi capi ed in modo molto superficiale.
Un altro aspetto criticabile –
non certo minore - è la rigidità con la quale Abraham Maslow definì lo schema
che spiegherebbe il comportamento dell’individuo.
Lo psicologo americano ipotizzava
infatti che lo sviluppo professionale (e quindi umano) del soggetto avviene
attraverso un percorso di soddisfazione dei bisogni, quindi secondo un iter a
senso unico ascendente, per di più graduale, senza prendere in considerazione il fatto che inizialmente il soggetto si trovi
in realtà in una posizione differente da quella in cui ha la necessità di soddisfare
i bisogni esistenziali, andando pertanto in palese contraddizione con il “qui”
e “ora” (hic et nunc - Martin Heidegger). Inoltre il soggetto – cane o uomo che
sia - può mettere in atto comportamenti finalizzati alla soddisfazione di
bisogni seguendo un percorso diverso da quello ascendente, e non è detto che
questi permanga sempre allo stesso livello
fino a che il relativo bisogno non sia stato soddisfatto.
Allo stesso modo non è detto
che un soggetto sia motivato dalla soddisfazione esclusiva di un unico tipo di
bisogno; e anche quando si tenda alla soddisfazione di un unico tipo di
bisogno, ci potremmo trovare di fronte al risultato di svariate motivazioni, perfino conflittuali tra loro.
Quindi, se è vero che alcuni bisogni sono
percepiti come “primari” rispetto ad altri (un cane che debba dedicare la
maggior parte del tempo a procurarsi il cibo non si darà molto da fare per
giocare con il conspecifico), è altrettanto vero che la motivazione ad
autorealizzarsi possa in alcuni casi avere temporaneamente il sopravvento sulle
necessità primarie dell’individuo, come ad esempio, il dormire.
Basti pensare ad un cane dotato
di una perfetta, quanto accentuata socialità intraspecifica che segue comunque il
suo trainer, nonostante nel campo di addestramento ci siano dei conspecifici
che giocano tra loro.
In base a tali critiche si
deduce che lo schema di analisi della motivazione, deve certamente
focalizzarsi sulla necessaria soddisfazione delle varie categorie di bisogni identificate in modo
piuttosto generico e sommario da Abraham
Maslow, ma non può avere aprioristicamente una struttura gerarchica, né
evidenziare una dinamica prevedibile.
Queste semplici
considerazioni, facilmente desumibili dall’osservazione del mutevole
comportamento canino (e umano), riducono drasticamente la portata dell’approccio di
Maslow, sia sotto il profilo teorico che sotto il profilo pratico. Inoltre Maslow
non ha fornito alcun elemento empirico che definisca operativamente i vari bisogni attraverso
concetti concreti.
Consideriamo oltretutto che in
questo caso la teoria è difficile da mettere in pratica, visto che non offre
precisi strumenti relazionali di leverage
(quindi di significativo beneficio) nei confronti del cane, perché lo
stesso bisogno - a seconda del soggetto - può essere soddisfatto in maniera
diversa.
Su queste evidenze, e su
quanto ho cercato di sintetizzare, si basò peraltro la successiva modificazione
della teoria maslowiana ad opera dello psicologo americano Clayton Alderfer (recentemente scomparso) nella sua famosa Teoria E.R.C. (“esistenza”, “relazione”, “crescita”),
in cui accorpa i cinque livelli di bisogno in tre livelli definiti - appunto - “esistenziali”, “relazionali” e “di crescita”.
I primi racchiudono i bisogni
fisiologici e di sicurezza, i secondi quelli sociali o di appartenenza, i
bisogni di crescita, i terzi quelli di stima e di autorealizzazione.
Ad una prima osservazione
questo schema potrebbe sembrare un semplice tentativo di raggruppare le
categorie dei bisogni di Maslow, ma ad un’attenta analisi non può sfuggire
l’innovazione principale che risiede nell’idea di “continuum” tra i diversi
livelli, in contrapposizione quindi alla gerarchia maslowiana, basata su un
meccanismo di soddisfazione/progressione al quale Alderfer integra un
meccanismo di “frustrazione/regressione”, che l’idea di scala o di piramide già
implicitamente conteneva.
In altre parole la teoria
E.R.C. riconosce che l’ordine di importanza delle tre categorie può variare da individuo
a individuo e – soprattutto - che da uno stato ci si possa comunque spostare
verso qualsiasi altro senza necessariamente seguire il verso indicato da Maslow.
L’intuizione di Maslow,
relativa alla compresenza di fattori basilari e fattori realmente motivanti, ispirò una rielaborazione ad opera dell’americano Frederick Herzberg nota come "teoria dei fattori duali”, nella quale vengono definiti i cosiddetti “fattori
motivanti” e quelli “igienici” (fattori di insoddisfazione; nulla a che vedere
con il WC).
In sostanza questa teoria
sfida la convinzione radicata sul modo in cui il livello di
soddisfazione influenza il livello di motivazione e la conseguente prestazione.
Herzberg dimostra che tutto
ciò che riguarda la relazione nelle sue infinite variabili non può produrre una
effettiva soddisfazione, ma che i miglioramenti
possono portare solo ad una diminuzione dell’insoddisfazione, che non si
tradurrà nella comparsa di una soddisfazione positiva.
Questo perché per ottenere
una soddisfazione positiva occorre agire su altri fattori
riguardanti la natura stessa della relazione e sulle motivazioni soggettive del
cane e del proprietario.
“Soddisfazione” ed “insoddisfazione”
non sono dunque valori positivi e negativi posti su un’unica dimensione in
opposizione tra loro, ma danno luogo a due dimensioni distinte che si muovono
su due piani paralleli.
In sostanza, i fattori
igienici creano insoddisfazione se sono assenti, ma quando presenti riducono il
livello di insoddisfazione senza per questo aumentare il livello di motivazione.
I fattori motivanti, invece,
migliorano effettivamente la prestazione poiché modificano la natura stessa
della relazione uomo-cane, rendendola maggiormente stimolante e intrinsecamente
gratificante su entrambi i fronti.
Esiste poi un ulteriore
selezione – direi un affinamento – dell’analisi dei bisogni; e ce la riporta lo
psicologo statunitense David McClelland (pietra miliare per lo studio delle
determinanti cognitive della motivazione) che identifica tre motivazioni fondamentali:
- Il bisogno della riuscita,
il quale rispecchia il desiderio di successo e la paura del fallimento;
- Il bisogno di appartenenza,
il quale combina i desideri di protezione e socialità (epimeletico ed
et-epimeletico) con la conseguente paura per il rifiuto da parte del gruppo
sociale;
- Il bisogno di potere, che riflette
i desideri (quindi non una necessità) di dominio e il timore di dipendenza.
Proprio in questo terzo
elemento McClelland introduce pertanto una
nuova tipologia di bisogno per spiegare il fenomeno motivazionale: il “bisogno
di successo”.
Per diversi anni gli studiosi
del comportamento umano avevano osservato che alcune persone esprimevano
un’intensa ambizione verso il successo, che già all’epoca risultava leggermente
diverso dalla autorealizzazione di stampo maslowiano, ma altri soggetti invece non
sembravano esserne interessati; scoprendo durante la quantificazione
che addirittura rappresentavano la maggioranza.
Venne osservato in
particolare che nelle organizzazioni sociali esistono differenze significative
tra le prestazioni medie e quelle eccellenti, e che quest’ultime non sono
caratterizzate solo da maggiori conoscenze/competenze, ma da caratteristiche
individuali quali motivazione e determinazione.
Sulla base di queste
conclusioni, John William Atkinson capì che la motivazione nasce dall’esigenza
di misurare le proprie abilità attraverso il raggiungimento di successi nelle
attività valutate come importanti, riprendendo quindi il “concetto di conflitto”
introdotto dallo psicologo tedesco Kurt Lewin (tanto caro agli studenti dei
miei corsi) aggiungendo però una nuova componente: quella emotiva.
Secondo Atkinson la
motivazione dipende da due componenti motivazionali contrapposte, speculari e
potenzialmente conflittuali:
- la tendenza al successo,
definita anche come speranza di riuscita;
- la tendenza ad evitare il fallimento,
definita come paura dell’insuccesso.
Di conseguenza,
l’inclinazione di ciascun individuo al conseguimento delle proprie mete, rende
stimolanti compiti proporzionati alle proprie risorse, non troppo difficili,
perché produrrebbero rinunce; non troppo facili perché poco stimolanti.
Mentre la tendenza al
successo (ovviamente inteso come “raggiungimento di un obbiettivo", nda) porta a
volere affrontare i compiti specifici e quindi alla motivazione, la tendenza a
evitare il fallimento porta ad un atteggiamento di ritiro o fuga nei confronti
delle situazioni, alla poca persistenza, alla noia, ed al disinteresse: quindi
alla demotivazione .
McClelland dimostra al
contempo una stretta correlazione tra “motivazione al successo” e “rendimento”
che spiega attraverso i processi di autostima, i quali derivano da esperienze
pregresse positive di realizzazione e successo.
In questo modo viene pertanto
presa in considerazione la dimensione affettiva della motivazione,
caratterizzata da una reazione di anticipazione della finalità e basata su
associazioni di piacere e dolore stabilitesi in passato, per cui l’individuo è
disposto a compiere uno sforzo per raggiungere - o evitare - un particolare
stato.
In sostanza McClelland parte
dalla “motivazione alla riuscita” e giunge a descrivere tre tipi di
motivazioni:
1) riuscire ed evitare il
fallimento;
2) affiliarsi e ad evitare
l’isolamento;
3) evitare la dipendenza.
La triade dei bisogni non sembrerebbe
più quindi una semplice riaggregazione dei bisogni descritti nella Piramide di
Maslow, ma sottolinea il fatto che il bisogno di autorealizzarsi sta in mezzo
agli altri due tipi di bisogni - quello di affiliazione e quello di potere -
declinandosi tra due poli opposti che sono peraltro mediati da una tendenza individuale che ritiene strumentale -
ai fini della riuscita - l’imporsi sugli
altri, e da una tendenza sociale che legittima il successo solo nella misura in
cui si realizza all’interno di valori condivisi dal gruppo sociale (vedi
capitolo XII del mio libro “Parlare da cani; storia di una relazione”) .
Sul piano applicativo
McClelland descrive le principali caratteristiche che un soggetto solitamente
esplicita nelle sue funzioni specifiche, suggerendo indirettamente come
allineare, laddove sia possibile, le necessità dell’individuo ai requisiti
della mansione (è il caso degli “specialisti”).
Un cane con un alto bisogno
di affiliazione (un “estroverso sinistro” per chi conosce la Carta Cinometrica
Caratteriale) difficilmente gradisce una
buona dose di autonomia, poiché ciò potrebbe portarlo – secondo le sue
caratteristiche endogene – alla percezione di un relativo isolamento e all’impossibilità
di interagire e condividere obiettivi (ma anche emozioni) con i conspecifici o
con il proprietario.
La loro collocazione ideale è
infatti all’interno di quei ruoli in cui possono esprimere la loro capacità di
stabilire relazioni positive (“A side”) con gli altri e di integrarsi (ma
questo vale per tutti i “sinistri”; introversi o estroversi) e in quegli ambiti
nei quali è richiesta una grande capacità di coordinamento con gli altri soggetti
e in cui si ha la possibilità di sentirsi parte integrante di un team.
Per concludere, il “bisogno”
in senso psicologico non è sempre sovrapponibile a quello psicofisiologico (vedi
l’esempio della dipendenza psicologica) e la spinta a ricercare determinati
elementi non è necessariamente una motivazione sufficiente per agire, visto che esistono pulsioni che non trovano la loro
origine in uno stato di carenza.
La Piramide di Malsow
semplifica in maniera drastica i reali bisogni;
soprattutto il loro livello di importanza.
Sarebbe quindi corretta in
termini prettamente funzionali, quanto relativi più alla semplice sopravvivenza
dell'individuo, che non in termini di affermazione sociale, ed è proprio questo
il nocciolo della questione.
Durante i miei studi sul tema
notai che altre critiche – qua e là - vertevano sul fatto che la successione
dei livelli potrebbe non corrispondere ad uno stato oggettivo condivisibile per
tutti i soggetti, ed infatti lo stesso Maslow nel suo libro “Toward a
Psychology of Being” del 1968 aggiunse alcuni livelli che aveva inizialmente
ignorato.
Come sostenne Henry Alexander
Murray nel 1938 <<Il bisogno è istintivo>> mettendo per primo in
correlazione la psicologia della motivazione con quella che definì la “tassonomia
dei bisogni”, e focalizzando le sue ricerche sulla “motivazione alla riuscita” (achievement).
Claudio Mangini