La storia di “Vita”
assomiglia per certi versi a quella di tante altre che passano sul web.
Una foto su facebook
dove si vede questa femmina adulta di setter inglese pressoché irriconoscibile
dal peso di 6 Kg, e una marea di cuoricini e di commenti rigorosamente al
condizionale sotto la didascalia.
<<Vi prego
aiutatela!!!>>
(questa era l’head
line generale)
La condivisi
immediatamente sulla mia pagina perché – tra l’altro - mi stavo confrontando
con alcuni colleghi sul concetto di “istinto predatorio”: quel retaggio
filogenetico che i cani hanno ereditato dal lupo, ma che l’uomo ha
accuratamente interrotto nelle sue varie sequenze attraverso l’opera di
selezione del cane.
Qualcuno sosteneva che
il cane fosse un predatore – alcuni lo accostavano addirittura al lupo – ed io,
attraverso la foto di “Vita” mi misi a controargomentare con l’evidenza dei
fatti.
A prescindere da
questo, alzai il telefono rendendomi subito disponibile per l’adozione o per
una qualunque cosa dovesse occorrere, venendo così in contatto con Fabiana Rosa
di “Progetto Quasi”, la quale mi disse molto chiaramente che c’era stata una
sola richiesta ufficiale che peraltro doveva essere valutata.
<<Ma
come?>> – mi chiesi – <<Migliaia di “mi piace”, centinaia di post
ed una sola persona che voleva questa cagnetta sfortunata? Sarebbe questo
l’amore per i cani? Dov’è l’azione?>>
In verità gli italiani
si dimostrarono – come sempre – particolarmente sensibili alla storia di “Vita”
e mandarono all’Associazione che se ne stava occupando molti contributi per
rimetterla in sesto; ognuno per quanto fosse nelle sue possibilità.
Un cane conciato in
quello stato è, nella maggior parte dei casi, un soggetto con molti problemi di
carattere comportamentale, ed ero pienamente cosciente che l’adozione di “Vita”
sarebbe stata impegnativa sul lungo termine.
Andai a prenderla a
Roma con il mio “Eugenio” (adottato a suo tempo da un canile salentino) e le
mie preoccupazioni si dimostrarono fondate: “Vita” era un soggetto fobico e
pieno di deprivazioni; probabilmente cresciuta dentro un serraglio per tre anni
(questa era l’età apparente).
Le ragazze di “Progetto
Quasi” ed i veterinari interpellati avevano già fatto un grande miracolo
restituendole le forze e curandola sul fronte clinico, mentre a me – adesso –
spettava il compito forse più impegnativo: farle conoscere il mondo e tentare
un percorso molto articolato che le insegnasse a gestire le fobie e le paure.
Mentre tornavo a casa
cercando di riordinare le idee, mi tornò in mente un post in cui c’era scritto
<<Mi auguro che questo cane, così sfortunato, vada ad una famiglia e non
ad un addestratore>>.
Mantenni a
stento quell’apparente senso di autocontrollo che mi permise di non mandare a
quel Paese la perla che racchiudeva un luogo comune creato ad hoc dal moderno
marketing cinofilo, cercando di
immaginare al contempo
una serie di strategie per far venire fuori “Vita” dai suoi impasse.
Trovavo profondamente
ingiusto – quanto deplorevole - che un essere umano avesse potuto ridurre un
cane in quello stato, ma se mi fossi fermato alla pena, “Vita” non avrebbe mai più
vissuto un’esistenza dignitosa come invece meritava. Per casi come questi ci
vogliono competenze, esperienza ed infinita pazienza. L’amore non basta.
Pensai <<Ci
sono nato tra i setter ed i pastori maremmani; è pane per i miei denti>>
e proprio in quella riflessione la mente tornò a quel tempo in cui i cani
facevano ancora i cani, con i loro punti di forza, la loro maestria e
l’impareggiabile competenza che gli era propria (nel caso dei setter, la
caccia).
“I tempi sono
cambiati, ma i cani sono rimasti quelli di un tempo”: è un fatto con cui anche
il più incallito dei Cinofilosofi deve necessariamente fare i conti prima o poi, e fu
proprio da questa considerazione che sono partito per il recupero
comportamentale.
Una volta
arrivata a casa – grazie alla mediazione di “Eugenio” (cane alpha) – la presentai
al mio gruppetto di “Cani Tutor”, i quali la accolsero come solo dei grandi
ausiliari sanno fare.
La lasciarono
ambientare per qualche giorno lasciandola successivamente adottare da “Malena”,
una femmina adulta di pastore belga malinois.
“Malena” è quello che io
definisco un “cane filtro”, cioè un soggetto in grado di interagire con il conspecifico
attraverso un modo molto particolare e discreto dandogli – in sostanza – il libero
arbitrio in merito all’interazione: la capacità di aspettare che fosse proprio “Vita”
a cercare il confronto.
“Vita” ci mise circa
una settimana per capire che la mia famiglia poteva anche andargli a genio. Il
suo vissuto era piuttosto evidente, ma il suo lato caratteriale di certo
non aiutava.
Decisi quindi di
affidarla alle cure della lupa “Elka”, usando “Eugenio” e “Malena” come
moderatori, e la scelta si rivelò vincente.
“Elka” le fece
esplorare il mondo esterno con quell’esperienza e quel tocco di spavalderia che
la contraddistingue, e la setterina non ci mise molto a seguirla nelle sue
esplorazioni con un evidente "senso di Fede".
Il suo spettro emotivo nei
confronti degli stimoli cominciò a rimodularsi di giorno in giorno,
andando di pari passo con l’allargamento del lavoro in outdoor: e le macchine,
i camion, i ciclisti, io stesso ed i miei collaboratori non eravamo più una
minaccia o qualcosa da dover tenere a debita distanza, ma un’opportunità tra le
tante; seppure ancora con qualche lecita riserva.
Affinché io diventassi
una vera e propria “opportunità” avrei dovuto fare qualcosa di così
straordinario per lei che mi permettesse di meritare un’attenzione diversa e
del tutto speciale.
Un bel giorno dovetti
andare a verificare una fototrappola sui Monti Sibillini e, passando da un bar
di montagna per il solito caffè delle 11.00 mi fermai a fare quattro
chiacchiere con dei cacciatori che stavano parlando del più o del meno.
Da loro mi feci dare l’indirizzo
di un quagliodromo e acquistai alcune starne per poter tirare fuori da “Vita”
il setter che era ancora dentro di lei.
Non era la prima volta
che usavo le motivazioni di razza in ambito comportamentale, ma vedere questa
setterina tutta impegnata nello cerca, nello scovo, fino al frullo, fu una di
quelle esperienze che ti rimangono profondamente addosso.
Capii subito che uno
dei probabili motivi per cui “Vita” era stata abbandonata nasceva dalla sua
paura per gli spari, ma non essendo io un cacciatore, né usando alcuna arma, la
cagnetta si rese immediatamente conto che in me aveva trovato un punto di
equilibrio tra il suo modo di essere (genetico), le sue paure ed il mio mondo.
Per evitargli le
frustrazioni derivanti dalla mancata uccisione della preda – e conseguente
riporto – feci quindi uno zimbello con delle piume di starna lanciandolo nella
stessa direzione della frullata, evitando pertanto di uccidere un volatile e
lodandola quando me lo riportava.
D’altra parte il mio
obbiettivo non era certo quello di utilizzarla come cane da caccia, ma
semplicemente di ripristinare il suo lato canino più vero ed autentico.
Questi esercizi
durarono circa una quindicina di giorni, periodo in cui cercavo di cambiare
puntualmente gli areali di caccia affinché la cagnetta non contestualizzasse
eccessivamente il lavoro, ma imparasse a muoversi in aree sempre diverse e di
fronte a stimoli sempre diversi, lavorando quindi anche sulle basi (richiamo, riporto, etc.).
Era piuttosto palese
che non avesse molta esperienza come cacciatrice, ma a questo limite pose
rimedio la mia adorata “Elka”, la quale gli insegnò modalità davvero
particolari e a tratti uniche nel suo genere.
Il percorso di recupero
comportamentale venne dichiarato “finito” nel momento in cui “Vita”, di sua
spontanea volontà, cominciò a cercare il contatto con gli estranei senza alcun
problema.
Un avvenimento che non
ho mai festeggiato, ma che rimarrà per sempre impresso nei nostri cuori.