Se c’è una cosa che oggi va tanto di moda dire, in nome dell'ipocrita politically correct, è che
“esseri umani ed animali sono uguali”.
In questa uguaglianza trovano posto la senzienza, cioè considerare le altre
specie come esseri dotati di caratteristiche biologiche e prerogative proprie
degli esseri umani, la mente e la cultura (vedi approccio
cognitivo-zooantropologico).
Sul fatto che gli esseri umani siano una specie animale
come tutte le altre credo che non ci siano dubbi, ma sostenere che non ci siano
differenze tra noi e le altre specie lo trovo piuttosto estremistico, visto che
ogni specie ha caratteristiche uniche – specie specifiche - che lo distinguono
perfino dai suoi parenti più stretti (nel caso dell’Homo sapiens vedi le scimmie antropomorfe).
Oltre a senzienza, mente e cultura, nel mondo dei cani si
sente sempre più spesso parlare di adolescenza,
intendendo quel periodo della vita che nell’essere umano va indicativamente, e soprattutto
convenzionalmente, dai 10 ai 18 anni di età.
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Quando lessi per la prima volta questo termine nel mondo
dell’etologia canina mi feci subito una domanda: perché nei manuali di zoologia
non si trova il termine adolescenza, ma si trova quello di pubertà?
Nel tentativo di darmi delle risposte convincenti mi sono
chiesto chi sia stato il primo a parlare di adolescenza nel cane, cercando al
contempo una definizione che chiarisse il mio interrogativo.
Inutile dire che, una volta trovato l’autore (del quale
non farò il nome), non ho mai letto una definizione che si possa ritenere tale,
fatta eccezione della solita (e sbagliata) trasposizione del termine dalla
pedagogia umana all’etologia canina, o all’altrettanto errata traduzione di uno
scritto dei coniugi Raymond e Lorna Coppinger (Coppinger & Coppinger, 1998.
Difference in the behavior of dog breeds. In: Genetics and behavior of domestic
animals. Accademic Press. Temple Grandin).
In un mondo fortemente antropocentrico come quello
attuale, nel quale l’antropomorfismo è paradossalmente uno dei tratti più
comuni che si osservano nelle disamine dei comportamenti canini, poteva mancare
l’adolescenza?
Partiamo da come questo ipotetico periodo viene declinato
dal mondo della medicina comportamentale.
«Un periodo transitorio, una fase di sviluppo simile a
quella degli esseri umani, il segnale dell’iniziata pubertà nel periodo che
indicativamente va dagli otto e i quindici mesi di età. In questo periodo,
oltre al bombardamento ormonale il cane sta cercando di costruirsi la propria
identità e il suo ruolo nel gruppo “branco/famiglia. In questa fase il cane
cambia il suo aspetto fisico; e questo cambiamento può influire anche sul suo
comportamento. Come succede agli umani, anche il comportamento canino diviene
spesso irrazionale, e proprio il modo in cui gestiremo questo periodo deciderà
se siamo stati in grado o meno di crescere un adulto equilibrato e fiducioso, che si tratti di un ragazzo o di un cane» (dott. Luigi
Buti – medico veterinario comportamentalista).
È evidente come in questa definizione la medicina
comportamentale, che non è precorritrice del termine in ambito cinofilo,
omologhi in qualche modo un determinato periodo di sviluppo umano a quello
canino con relativi consigli di gestione (“che si tratti di un ragazzo o di un
cane”), ma è davvero così?
Un altro spunto ce lo fornisce il libro: “L’età
selvaggia” (2020) di Barbara Natterson-Horowitz (cardiologa) e Kathryn Bowers
(biologa).
Quando lo vidi in libreria rimasi perplesso a causa del
sottotitolo «Adolescenza: il viaggio epico e ribelle che accomuna animali e
umani» dal quale si evince l’ennesima comparazione che – di fatto – non si trova in alcun manuale o libro di zoologia, né di etologia.
Ma andiamo alle pagine che parlano dell’adolescenza.
Come si può leggere, quando le autrici si riferiscono
alla pubertà la descrivono come «…un
processo biologico, avviato dagli ormoni, che ha come conseguenza la capacità
riproduttiva di un animale».
Sarà infatti capitato a tutti voi di osservare un
cambiamento nel comportamento del cane quando arriva la pubertà: il cane
comincia a mettervi in discussione e abbandona con i conspecifici
quell’ottimismo relazionale tipico dei cuccioli e dei subadulti al quale si
sostituisce qualche atteggiamento
agonistico.
La Horowitz e la Bowers ne parlano però in modo
strettamente fisiologico, come se questo fenomeno non portasse in sé alcuna
implicazione comportamentale.
Diverso è il discorso riguardo l’adolescenza che descrivono come «…una fase nella quale si fanno
esperienze cruciali, si assimilano informazioni dai propri modelli e ci si
mette alla prova contro i pari, i fratelli ed i genitori».
Questa frase sembra estrapolata da un manuale di pedagogia,
perché i cani – in realtà - fanno esperienze cruciali e assimilano le
informazioni dai propri modelli prima che arrivi la pubertà.
Dai novanta giorni in poi sono animali allontanati dalla
madre, che fanno esperienze ogni giorno, misurandosi con i conspecifici
attraverso il gioco, le cure alloparentali e l’interazione continua.
Stando alla zoologia, e non all’autoreferenzialità, le
fasi del cane si dividono in:
- fase neonatale,
- fase del cucciolo
- fase del subadulto (alcuni autori riportano
“preadulto”)
- fase dell’adulto
- fase delle stagioni riproduttive
- fase della gravidanza
- fase dell’allattamento (alcune fonti riuniscono queste
ultime due fasi)
- fase dell’invecchiamento.
Ed è proprio nella fase del subadulto – quindi quando gli
individui sono completamente sviluppati, ma non ancora in grado di riprodursi
(sessualmente non maturi) – che accade tutto ciò che viene descritto dalla
Horowitz e dalla Bowers quando si riferiscono all’adolescenza.
L’arrivo della pubertà, grazie al cambiamento ormonale e
ai modelli appresi nella fase subadulta, avvia anche la scalata gerarchica, ma
solo nel caso in cui il soggetto disponga di uno status (endogeno) di un certo
tipo che comunque avrà già avuto modo di far emergere saltuariamente nelle
interazioni intraspecifiche prepuberali, e nel caso in cui dovesse far parte di
un gruppo sociale.
Ma cos’è, nell’ambito della psicologia e
dell’antropologia umana, l’adolescenza?
Il primo a studiarla, proponendo un’interessante teoria (la
teoria biogenetica), fu lo psicologo americano Stanley Hall (che non è Edward Hall,
l’antropologo che studiò la prossemica; altra disciplina trasferita impropriamente
in ambito cinofilo), considerato il padre della psicologia dell'adolescenza, il
quale fece conoscere negli USA Sigmund Freud e la teoria della psicoanalisi.
Hall era molto influenzato dalle scoperte di Charles
Darwin e dal concetto di evoluzione e formulò la cosiddetta “legge della ricapitolazione”
(descritta da Ernst Haeckel, e sostituita oggi dalla biologia evolutiva dello
sviluppo), partendo dal presupposto che lo sviluppo dell'individuo è
filogeneticamente orientato nello sviluppo da bambino ad adulto, nel quale si percorrono
di nuovo gli stadi della storia dell'umanità.
Stanley Hall fu il primo a rendersi conto che la mente di
un bambino è differente da quella di un adolescente. Mentre il primo è fortemente
interessato al mondo materiale, al mondo esterno e ai suoi fenomeni, l'adolescente
sviluppa una vita interiore che si realizza attraverso una capacità
d'introversione, la quale crea stati d'animo e sentimenti di un certo tipo. D’altra
parte l’adolescenza è piena di sentimenti contrastanti quali dolore ed
entusiasmo, tempeste emozionali, innamoramenti appassionati e irrazionali, odi
ciechi, fiducia smisurata per le proprie forze e disperazione per i propri
limiti, rinuncia romantica e autodistruzione. Insomma: l’adolescenza umana è
l'età delle tempeste emotive.
Le considerazioni generali di Hall, così come quelle di Freud sull’adolescenza
vacillarono nel momento in cui l’antropologa statunitense Margaret Mead dimostrò
insieme a Ruth Benedict che l’adolescenza
è sostanzialmente un prodotto della cultura.
Le due colleghe studiarono gli adolescenti delle Isole
Samoa (Oceano Pacifico), in quella che ritenevano – e lo era – una società
primitiva.
L'adolescenza negli isolani era poco percepita, visto e
considerato che fin dalla tenera età i bambini avevano un'educazione compiuta
sulla sessualità e vivevano un rapporto quotidiano con questo fenomeno
naturale.
Mead e Benedict osservarono che il passaggio dalla
fanciullezza alla maturità era vissuto senza le problematiche dell'adolescenza
tipiche del mondo occidentale, scoprendo che esiste una forte relazione tra
l'adolescenza e il grado di complessità della società in cui essa vive. In
sostanza, una società complessa e complicata come quella nostra, costringe
l'adolescente a repentini cambiamenti, ed è proprio per questo che l’adolescenza
diventa più lunga e soprattutto più conflittuale.
Le due antropologhe conclusero che anche nella sfera
sessuale vissuta dall’adolescente si ritrova e si riflette la cultura della
società nella quale vive, quindi che il soddisfacimento sia permesso come nelle
Isole Samoa, oppure represso come nel mondo occidentale, l'adolescente compie
scelte socialmente indicate.
Il lavoro delle due antropologhe si avvicinava molto a
quella che poi si sarebbe chiamata “etologia umana”, quindi lo studio dell’essere
umano in chiave squisitamente naturalistica (Desmond Morris, Richard Dawkins, Irenäus
Eibl-Eibesfeldt, per fare tre nomi in ordine sparso), e una delle conclusioni alle quali
giunsero fu che «lo sviluppo della personalità è influenzato contemporaneamente
da fattori ereditari, culturali ed appartenenti alla storia personale». Un
modello sociologico e antropologico che dà centralità all’ambiente, il quale diventa essenziale nell’evoluzione dell’adolescenza e
della sua fenomenologia; un modello che si oppone a quello biologico e
fisiologico (pubertà VS adolescenza).
In questa scalcinata cinofilia italiana il termine adolescenza
– descritto puntualmente con tanto di # hashtag - è diventato un modo per spiegare ogni
problema che possa emergere con l’arrivo della pubertà canina. In una diretta
Facebook ho sentito addirittura dire da un influencer che (CIT) «Il cane a quell’età è
come quando noi volevamo scoparci anche il palo della luce per quanto eravamo in
preda agli ormoni» senza tenere conto che i cani maschi, a differenza dell’uomo,
devono avere dall’altra parte una femmina in calore che li attivi sotto questo
profilo.
E qui vale la pena tornare all’antropologia, alla zoologia
e all’evoluzione umana.
In tutti gli animali la maturazione sessuale precede di
poco il diventare adulti. Nell’uomo le cose non coincidono affatto: tra la
maturazione delle gonadi e la fine della fase evolutiva della personalità (che
oggi è stata spostata a 23 anni) c’è un bel lasso di tempo. La maturazione
delle aree cerebrali avviene con tempi non omogenei e differenziati, così come
quella delle aree prefrontali, deputate al controllo degli impulsi e
all’inibizione dei comportamenti, avviene nel cervello degli adolescenti più
tardi rispetto alle altre aree.
Perché la natura abbia deciso questo nessuno lo sa, ma è presumibile
che c’entri la complessità dell’essere umano, tale che per diventare adulto
deve acquisire ben altre competenze che non strofinarsi con un partner o
procreare come fa qualunque animale non umano. Deve sostanzialmente prendersi
sulle spalle la responsabilità dell’esistenza, e quindi avere una qualche idea
su ciò che questo significhi.
La nostra cultura ha liberalizzato la sessualità
affrancandola dal fine procreativo e dall’affettività: due ragazzi si
incontrano, si piacciono, fanno l’amore con le dovute precauzioni, e la cosa
finisce lì.
Possibile che la pratica strumentale della sessualità,
vale a dire esercitata solo al fine di ricavarne un piacere narcisistico, non
rientri del tutto in un ordine naturale, inerente cioè la natura umana; una “forzatura” culturale?
Una risposta possibile verte sul confutare il luogo
comune che nell’uomo la sessualità sia solo espressiva di un istinto naturale, ma negli animali le cose stanno così. L’istinto sessuale ha una finalità univoca:
la procreazione. Nell’uomo, e solo nell’uomo (a parte i Bonobo) la sessualità
si associa al piacere. Negli animali c’è solo la fregola, la quale è però una
tensione istintuale programmata per scaricarsi nell’atto riproduttivo.
A che serve il piacere sessuale, uno dei più intensi che
l’uomo possa provare? «A dare gusto alla vita» risponderebbe qualcuno, ma è difficile
attribuire alla natura un intento del genere.
In realtà, sotto il profilo evoluzionistico, la comparsa
del piacere è avvenuta in parallelo con il fatto che la femmina umana è
diventata perennemente ricettiva (calore non visibile), mettendo i maschi al riparo dallo scannarsi
per conquistare quella in calore.
Il piacere, associato alla perpetua disponibilità
femminile, è uno stratagemma evolutivo finalizzato a incrementare i rapporti
sessuali. Ma che bisogno c’era di una cosa del genere? Non sarebbe bastato l’istinto
che negli animali non umani funziona benissimo? Probabilmente no, perché i
rapporti sessuali umani non sono solo finalizzati naturalmente alla
procreazione, ma alla necessità di farsi carico di un cucciolo prematuro e
neotenico che ha bisogno di essere protetto, curato e vezzeggiato per un numero
indefinito di anni.
Senza la spinta del piacere, gli esseri umani sarebbero
stati indotti a pensarci non una, ma tre volte prima di correre il rischio di
mettere al mondo un figlio. E infatti, capita la cosa, l’essere umano ha
trovato le contromisure con la conseguente diminuzione della natalità.
Il piacere è dunque uno stratagemma che indora la pillola
delle sue conseguenze, e dato che l’allevamento di un bambino impegna non solo
il padre e la madre, ma un intero gruppo di persone (tant’è che da quando la
famiglia si è nuclearizzata il calo delle nascite è stato continuo), era
inevitabile che nascesse la famiglia come “agenzia di riproduzione sociale”.
Questo significa né più, né meno, che nell’uomo la
sessualità, non comporta solo la procreazione, ma la necessità che qualcuno si faccia poi carico per anni dell’accudimento e dell’allevamento di un cucciolo terribilmente impegnativo, ed è anche per questo che la nostra specie è
predisposta alla formazione di vincoli affettivi particolarmente forti dall'organigramma piuttosto esteso (madre, padre, zii, nonni, sorelle, cugini, etc.)
Posto quindi che il piacere sia un insidioso stratagemma
evoluzionistico, perché gli esseri umani non avrebbero il diritto di sciogliere
il nesso tra affettività e sessualità, rivendicando al contempo l’esercizio di
quest’ultima in termini di piacere fine a sé stesso?
La cultura e le regole che ci diamo non servono proprio a questo? A correggere gli
“errori” della natura?
Ed eccoci quindi tornati all’etologia umana e agli studi di Margaret
Mead che vede nell’adolescenza un prodotto della cultura.
Chiudo questo articolo sull’adolescenza con le parole del
Prof. Alessandro Tolomelli, cattedratico dell’Università di Bologna.
«Se pensiamo che l’adolescenza non esista allora possiamo
guardare all’adolescente come a un soggetto in carne e ossa e non come a un simulacro bersaglio di
stereotipi e pregiudizi che hanno la funzione di rassicurare chi guarda, ma non sono utili per
instaurare una relazione significativa e finalizzata alla formazione del sé. Agire come se “l’adolescenza non esistesse”
è infine un modo per praticare una dissidenza pedagogica rispetto alle regole e
norme del modello dominante nel mondo adulto e indicare così una possibile direzione
di vita più indipendente anche per gli ex adolescenti».
Ricordate: negli animali non umani esiste la pubertà, non
l’adolescenza. Si parla quindi di soggetti puberi, non di adolescenti. Ecco il motivo per cui non troverete mai il termine adolescenza nei manuali di zoologia o nei libri di etologia.
Claudio Mangini
NOTA: sicuramente alcuni lettori esclameranno «Ehhh va beh!
Adolescenza o pubertà è uguale: basta farsi capire dalle Sciuremarie!» ma personalmente ho mai amato questo atteggiamento semplicistico,
spinto più dalla povertà di contenuti che non dal bisogno di arrivare a più
gente possibile. I termini hanno un senso compiuto, e credo che molti di loro
siano utilizzati impropriamente per semplice ignoranza.
Autori di riferimento: Stanley Hall, Ernst Haeckel, Margaret Mead, Desmond
Morris, Richard Dawkins, Terrence Deacon, Massimo Recalcati, Jean Piaget, Luigi
Anepeta, Alexa Colgrove Curtis, Alessandro Tolomelli, Irenäus Eibl-Eibesfeldt, Stefano
Laffi, Erik Erikson, Robert James Havighurst,
Per maggiori approfondimenti
scrivere alla mail manginiclaudio@yahoo.com