martedì 5 novembre 2024

Cos'è la docilità nel cane?

 

C'è molta confusione sul termine docilità, e alcuni lettori mi hanno chiesto di fare chiarezza su questo termine.


Docile” deriva dal latino docilis, che nasce dal verbo docere, che significa insegnare.

Se però volessimo cercare il termine ammaestrabile nell’etimologia latina, troveremo docilem (NB: il termine docente è sempre un derivato di docere). Pertanto docile e ammaestrabile fanno parte della stessa etimologia, e quindi, hanno un significato simile; a tratti identico.

Come ci riferisce l’Accademia della Crusca, il termine docile nasce da una antica concezione di insegnamento, secondo cui insegnare significa “dare una forma prestabilita allo studente”, il quale è tanto più bravo quanto più è ubbidiente e disposto ad imparare ciò che l’insegnate ritiene importante insegnargli. Il focus del termine indica pertanto l’obbedienza e la disponibilità ad imparare senza battere ciglio.

Nel tempo il termine ha preso varie forme ed indirizzi che però lasciano inalterato il significato originale, cioè “tutto ciò che si conforma con sollecitudine alla volontà di chi lo guida” (vedi il cavallo docile che si lascia condurre senza opporre resistenza), ma al giorno d’oggi nessuno si sognerebbe di dire "uno studente docile" (come veniva usato un tempo), ma viene sostituito da un più garbato – e adatto ai tempi – “studente brillante”.

Se andiamo nei manuali cinofili del secolo scorso troviamo questa definizione di docilità: "la predisposizione ad accettare l'uomo come superiore gerarchico".

Piero Scanziani, nel suo "Il cane utile" declina in questo modo la docilità:




In questa definizione c’è però solo l’eco del termine latino docilis, perché la parola prende un connotato sociale, in cui l’essere umano esprime dominanza sul cane.

Se leggete bene le etimologie, l’aggressività non trova alcuno spazio, se non in maniera celata ("senza opporre resistenza") e poco significativa. L’animale, cane o cavallo che sia, gioca dunque un ruolo passivo a vari livelli.

Se prendiamo il termine mansueto, lo troviamo con il significato di docile, addomesticato, paziente; tre caratteristiche abbastanza diverse secondo i dettami dell’etologia classica. La mansuetudine è infatti (CIT) “l’inclinazione ad accettare l'altrui volontà, o a soddisfare le altrui richieste ed esigenze, con mitezza o docilità, cui può accompagnarsi un aspetto di composta dolcezza”. In poche parole, si tratta della stessa definzione data da Piero Scanziani.

Mansuetudine deriva dalla voce dotta (le voci dotte sono quelle di derivazione latina, contrapposte a quelle della cultura/lingua popolare/ereditarie) del verbo mansuescere, composto da manus e da suescere che significa letteralmente “abituare alla mano”; una mano che domina, che guida, che tira, che chiama; rappresentante di una volontà che controlla, che possiede. Non stupisce quindi che il mansueto sia l’addomesticato, cioè l’animale che si fa accarezzare ed ubbidisce.

Come vedete, nelle varie etimologie si richiama sempre l’insegnamento, che però slitta nell’obbedienza, nella dominanza e nel controllo. Forse un po’ troppa roba per un solo termine (docilità), il quale insiste nei vari termini.

Nella Cinometria Caratteriale tutte queste cose vengono divise e messe al loro posto, proprio perché non è possibile fare un unicum di un numero così elevato di caratteristiche. D’altra parte la cinofilia non è la disciplina che si occupa di comportamento animale, ma di addestramento e di esaltazione delle doti selezionate nelle varie razze (zootecnia).

Essendo la docilità il collante semantico che unisce i termini mansuetudine e insegnamento, ed essendo la mansuetudine il contrario del termine aggressività, nella Cinometria Caratteriale la docilità è quella dote che possiede un animale domestico (a differenza del selvatico) che gli permette di collaborare con l’uomo in modo spontaneo e naturale senza opporre resistenza.

La collaborazione, e quindi l’inclinazione a collaborare naturalmente con l’essere umano sulla base delle predisposizioni di razza, viene dunque svincolata dal concetto di docilità e incasellata in maniera specifica tra le varie dotazioni del cane, contrapponendosi alla caratteristica individualista di alcuni soggetti (generalmente il 20% della popolazione canina).

D’altra parte sia gli individualisti che i collaborativi apprendono, ma lo fanno in modo differente, e ciò vale anche per le capacità di problem solving. Ed è qui che entra in ballo lo studio del comportamento.

Ma di più: i gradi di collaborazione sono rappresentati in una scala, così come quelli descritti dall’individualismo del soggetto, con un range cinometrico caratteriale ideale (l’area vede) entro il quale stare o riportare il cane.





Due esempi

Il mio cane “Rigo” (Cane Lupino del Gigante) non era indocile, ma individualista, e non è una differenza da poco. Seguiva “Tempesta” (Pastore Maremmano Abruzzese) come un’ombra in quanto gregario (una specie di scudiero del Re), ma esprimeva il suo individualismo anche nell’ambito intraspecifico in vari modi. Apprendeva come tutti gli altri, ma aveva capacità individuali di problem solving che potevano essere utili al gruppo (specializzazioni e specificità).



("Rigo")


("Rigo" e "Tempesta")


Al contrario, “Balto” (Mix Terrier di origine statunitense) era un cane indocile (opponeva resistenza verso gli estranei e verso alcuni componenti della famiglia esprimendo molta aggressività), ma dotato di una eccellente collaboratività e addestrabilità.



("Balto")


Dunque, due cani e due smentite riguardo l’idea di docilità per come ci viene presentata dalla cinofilia tradizionale, la quale trova certamente le sue ragioni nell’etimologia, ma non nella semantica generale, né nella pratica. D'altra parte, se ci pensate, nei test di docilità si verifica l'assoluta mancanza di aggressività davanti alla somministrazione di stimoli avversativi e tattili, e quindi mi chiedo cosa c'entri in tutto questo la collaborazione.

Di fatto, la Cinometria Caratteriale ha cambiato radicalmente la visione delle caratteristiche canine, inserendole in una chiave psicologica specie-specifica senza peraltro annullare le doti genetiche selezionate nelle varie razze, tenendo perdipiù conto del genere (maschio/femmina), del concetto di estroversione e di introversione, e dei tratti cardinali.

Tutte queste caratteristiche intervengono nell'approccio che diventa così unico e soggettivo.

Per fare un esempio, un pastore tedesco introverso destro viene considerato dalla cinofilia tradizionale indocile e inadatto per l'IGP, e finirebbe in un serraglio a vita o affidato a terzi. La Cinometria Caratteriale ci insegna però che si può alzare il grado di introversione verso il punto zero, e ottimizzare le tecniche addestrative interpretando il soggetto semplicemente come "destro", quindi come individualista. I risultati arriverebbero ugualmente, ma grazie ad un approccio diverso.


Claudio 

 

giovedì 11 gennaio 2024

Introduzione a "The hidden key"

 






Premessa


C’è chi sostiene che questa introduzione sia un manifesto. C’è chi la vede come una Stele di Rosetta del linguaggio canino, ma in realtà queste pagine sono solo un accenno del libro di etologia del cane “La chiave perduta” (“The hidden key”), scritta e pubblicata affinché i lettori possano prendere confidenza in modo esclusivo con qualcosa di estremamente nuovo nel panorama della comunicazione canina. Un tema già di per sé oggetto dei miei seminari nel biennio trascorso, questo saggio vuole preparare gli appassionati alla successiva e più ampia trattazione di vari argomenti collegati, oltre che essere uno strumento particolarmente efficacie per cominciare a comprendere il linguaggio dei cani sotto una luce diversa, sia sul fronte intraspecifico che interspecifico. Una chiave di lettura insolita, nata da un’intuizione del 1992 che ha attraversato la mia vita e che ho tentato in ogni modo di custodire gelosamente, ma che attraverso queste pagine vuole anche dare seguito ad un profondo senso di riconoscenza verso il mio maestro Paolo Villani. Fu proprio lui a dirmi «La tua carriera sarà lunga e fortunata, ma arriverà un giorno in cui dovrai restituire ai cani ciò che loro ti avranno dato». Per tutto questo, però, ci voleva tempo. E ci volevano le spalle grosse. La cinofilia italiana andava degradandosi quando ritenni che quel tempo fosse arrivato, e ciò mi mise nell’aspettativa che appartiene a coloro i quali attendono l’evolversi delle cose o un futuro migliore. Dopo “Parlare da cani, storia di una relazione” era prevista l’uscita del libro sulla Cinometria Caratteriale e poi quello riguardante il Meccanismo dei Cani Tutor, due applicazioni che nacquero grazie alla scoperta di quanto mi appresto a scrivere, ma all’epoca ritenni, e non sbagliai, che i tempi non fossero ancora maturi. Le pagine che seguono sono pertanto il frutto di un segreto personale ben custodito che ha attraversato un trentennio della mia vita, portandomi ad interpretare il linguaggio dei cani secondo una modalità che nessuno studioso aveva mai preso in considerazione: la cinetica del movimento.

Aprire una strada a nuove ricerche presuppone il fatto che si debba mettere almeno un punto di partenza, ed è questo lo scopo principale del libro, il quale mi piace definirlo come una vera e propria esposizione, un trattato, come nella migliore tradizione etologica dei tempi che furono.

Oggi i cani sono “bimbi pelosi”, non più una specie animale tra le altre. I proprietari si definiscono con orgoglio “babbini” e “mammine”, sempre meno conduttori e sempre più divulgatori del sentire di pancia, sorretti e “istituzionalizzati” da improbabili Guru corrotti dal più bieco antropomorfismo che ben si presta ad ingurgitare avidamente ingenti somme di denaro, e ciò mi porta a pensare che questo scritto non abbia in realtà un preciso target di riferimento, ma che si proponga come elemento trasversale per chi vuole scoprire e conoscere, più che vedere a grandi linee qualcosa.

Valeria Rossi, nella prefazione del mio primo libro, scrisse «…quella che ritengo la più importante scoperta e l’unica vera innovazione che il mondo cinofilo abbia visto negli ultimi trent’anni, e cioè il Meccanismo dei Cani Tutor», fotografando al contempo una criticità del settore rimasto fermo, mancante di nuovi spunti e tecniche volte a capire qualcosa di più sul comportamento dei cani.

In queste pagine viene raccontata una scoperta che anticipava di quasi trent’anni la tecnologia messa a disposizione a Marc Bekoff e l’idea di non antropocentrico del documentarista sovietico Viktor Kossakovsky (prodotto da Joaquin Phoenix, nda), che non solo permise la nascita del Meccanismo dei Cani Tutor e della cinometria caratteriale, ma aprì una strada ancora in parte da esplorare, almeno sotto il profilo sperimentale.

Negli ultimi anni c’è stato un significativo aumento d’interesse nei confronti del comportamento animale. I fattori che hanno influenzato questo trend sono molteplici, seppure siano quasi tutti riconducibili alla logica della domanda-offerta, ma la divulgazione scientifica, così come la divulgazione in genere, necessita di un linguaggio quanto più semplice possibile per arrivare a tutti. È sotto questo pensiero che ho cominciato a scrivere il saggio, inserendo nelle appendici finali alcuni approfondimenti affinché il lettore non resti spiazzato dai termini accademici o da concetti che meriterebbero una discettazione a parte.

Qualcuno si chiederà, e a buona ragione, il motivo per cui venga pubblicata un’introduzione e non direttamente il libro “La chiave perduta” (“The hidden key”), ma tutto ciò è motivato dall’esigenza di restare sul tema della ri-scoperta, vista la sua complessità. Il fatto che negli ultimi vent’anni la zoosemiotica sia stata usata impropriamente, più con supposizioni e impressioni personali che non attraverso il rigore delle ricerche sperimentali, obbliga in qualche modo a mantenere il focus senza farsi distrarre da concetti collaterali. Pensare che un cane comunichi esponendo il suo lato destro ed il suo lato sinistro, unitamente ai vari modeling che sono stati classificati, non è facile per chi, fino ad oggi, è stato abituato a vedere i segnali del cane in qualità di calmanti e non come veri e propri segni facenti parte di un flusso comunicativo molto articolato basato su tutt’altri presupposti. Basta attingere alla rete internet e dare un’occhiata alle osservazioni descritte nelle didascalie dei tantissimi video in cui la protagonista è l’interazione intraspecifica per avere un’idea della diversità di opinioni tra i professionisti, la stessa che denota la mancanza di unanimità in merito alla comprensione del linguaggio e del comportamento canino. Tutto questo si è inevitabilmente riversato sul comparto formativo che ha visto la frammentazione didattica e la nascita delle più disparate linee di pensiero che, nell’economia generale del cane e a conti fatti, non hanno dato alcun significativo contributo alle scoperte sul linguaggio o sul comportamento animale.

Ho sempre pensato che la conoscenza del linguaggio di una qualunque specie fosse determinante per comprendere il reale significato del suo comportamento, del suo ruolo, del suo sistema di status, della sua psicologia e della sua soggettività, soprattutto in questo periodo storico nel quale è possibile attingere ad una vastissima letteratura scientifica prodotta dalle neuroscienze e dall’ecologia comportamentale. Gli addetti ai lavori parlano di “posture” quando descrivono, ad esempio, un comportamento agonistico, ma spesso cadono nell’insidiosa trappola dell’antropomorfismo perché, di fatto, i comportamenti che vengono elencati sono gli stessi che osservarono a suo tempo Darwin, Lorenz, Trumler, Fox ed alcuni altri, i quali si concentrarono sulle linee generali, su quanto l’occhio umano poteva osservare, senza centrare però pienamente il focus e senza avere a disposizione la tecnologia moderna. Per fare un esempio, il punto non è osservare il sollevamento della zampa anteriore di una cane ascrivendolo genericamente ad un segnale, ma quale delle due viene alzata e, soprattutto, il feedback che produce in centinaia di soggetti, nei contesti più diversi. Lo stesso vale per il ringhio, per l’abbaio, per la piloerezione (orripilazione) che, nella maggior parte dei casi, sono segnali attribuibili al fenomeno della ridondanza, non segnali principali o di primo livello. Pur avendolo fatto in modo rigoroso, non mi è mai bastato studiare i media (infosfera e semiosfera), i significati (pragmatica) ed i segni (zoosemiotica), ma avevo bisogno di capire il perché di un certo tipo di comunicazione. Se il media rappresenta il dove, il mezzo, con cui comunica il cane, i segni emessi rappresentano il come, allo stesso modo con cui il messaggio rappresenta e racchiude il significato. Mi riferisco a tutto questo per sottolineare la necessità personale di dare una classificazione più precisa, per esempio, dei vari comportamenti affiliativi o di coesione, così come dovevo avere ben chiara la differenza tra la “dominanza sociale” ed il “presidio della distorsione comunicativa”, tra la timidezza e l’introversione, andando ben al di là dell’impressione personale e del luogo comune purtroppo ancora presente nelle valutazioni comportamentali. In sostanza, mi interessava capire cosa il cane affidasse alla comunicazione, e nella scoperta dell’esposizione del lato avevo trovato la chiave che mi permetteva di esplorare un mondo dentro al quale si evidenziavano una serie di riposte convincenti.

Questa introduzione non poteva dunque essere inserita in un libro di etologia generale della comunicazione canina quale è “La chiave perduta”, ma necessitava di una trattazione a sé che portasse l’attenzione su dinamiche comunicative mai proposte al grande pubblico, se non attraverso alcuni seminari e ai miei collaboratori più stretti.

Con la speranza che queste pagine, svincolate ormai dal bisogno di tutela personale garantito dalla presente pubblicazione, possano aprire un fronte di ricerca specifico ancora più sostenuto di quanto non lo sia già, ringrazio il Prof. Giorgio Vallortigara (Università di Trento – Animal Cognition and Neuroscience Laboratory), il Prof. Bruno Stefanon (Università di Udine - Dipartimento di Scienze Agroalimentari, Ambientali e Animali), Elisabetta Pedrocco, Massimiliana Varnier, Johannes Weibl e Francesca Genghini per il lavoro svolto in sede di ricerca sperimentale.

Il titolo di questo libro nasce da un’idea della dott.ssa Simonetta Losi che ringrazio con tutto il cuore.

 

 

 

 

Claudio Mangini




© 2021 Claudio Mangini

Titolo dell’opera: “Introduzione a the hidden key”

 Edizione italiana © 2021 ERA Edizioni

 ISBN volume 978-88-946374-0-3





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(best seller - 1° in classifica)



Per averlo scrivere a : webinar.claudiomangini@gmail.com


martedì 9 gennaio 2024

Esiste l'adolescenza nel cane?

 

Se c’è una cosa che oggi va tanto di moda dire, in nome dell'ipocrita politically correct, è che “esseri umani ed animali sono uguali”.

In questa uguaglianza trovano posto la senzienza, cioè considerare le altre specie come esseri dotati di caratteristiche biologiche e prerogative proprie degli esseri umani, la mente e la cultura (vedi approccio cognitivo-zooantropologico).

Sul fatto che gli esseri umani siano una specie animale come tutte le altre credo che non ci siano dubbi, ma sostenere che non ci siano differenze tra noi e le altre specie lo trovo piuttosto estremistico, visto che ogni specie ha caratteristiche uniche – specie specifiche - che lo distinguono perfino dai suoi parenti più stretti (nel caso dell’Homo sapiens vedi le scimmie antropomorfe).

Oltre a senzienza, mente e cultura, nel mondo dei cani si sente sempre più spesso parlare di adolescenza, intendendo quel periodo della vita che nell’essere umano va indicativamente, e soprattutto convenzionalmente, dai 10 ai 18 anni di età.



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Quando lessi per la prima volta questo termine nel mondo dell’etologia canina mi feci subito una domanda: perché nei manuali di zoologia non si trova il termine adolescenza, ma si trova quello di pubertà?

Nel tentativo di darmi delle risposte convincenti mi sono chiesto chi sia stato il primo a parlare di adolescenza nel cane, cercando al contempo una definizione che chiarisse il mio interrogativo.

Inutile dire che, una volta trovato l’autore (del quale non farò il nome), non ho mai letto una definizione che si possa ritenere tale, fatta eccezione della solita (e sbagliata) trasposizione del termine dalla pedagogia umana all’etologia canina, o all’altrettanto errata traduzione di uno scritto dei coniugi Raymond e Lorna Coppinger (Coppinger & Coppinger, 1998. Difference in the behavior of dog breeds. In: Genetics and behavior of domestic animals. Accademic Press. Temple Grandin).

In un mondo fortemente antropocentrico come quello attuale, nel quale l’antropomorfismo è paradossalmente uno dei tratti più comuni che si osservano nelle disamine dei comportamenti canini, poteva mancare l’adolescenza?



Partiamo da come questo ipotetico periodo viene declinato dal mondo della medicina comportamentale.

«Un periodo transitorio, una fase di sviluppo simile a quella degli esseri umani, il segnale dell’iniziata pubertà nel periodo che indicativamente va dagli otto e i quindici mesi di età. In questo periodo, oltre al bombardamento ormonale il cane sta cercando di costruirsi la propria identità e il suo ruolo nel gruppo “branco/famiglia. In questa fase il cane cambia il suo aspetto fisico; e questo cambiamento può influire anche sul suo comportamento. Come succede agli umani, anche il comportamento canino diviene spesso irrazionale, e proprio il modo in cui gestiremo questo periodo deciderà se siamo stati in grado o meno di crescere un adulto equilibrato e fiducioso, che si tratti di un ragazzo o di un cane» (dott. Luigi Buti – medico veterinario comportamentalista).

È evidente come in questa definizione la medicina comportamentale, che non è precorritrice del termine in ambito cinofilo, omologhi in qualche modo un determinato periodo di sviluppo umano a quello canino con relativi consigli di gestione (“che si tratti di un ragazzo o di un cane”), ma è davvero così?

 

Un altro spunto ce lo fornisce il libro: “L’età selvaggia” (2020) di Barbara Natterson-Horowitz (cardiologa) e Kathryn Bowers (biologa).


Quando lo vidi in libreria rimasi perplesso a causa del sottotitolo «Adolescenza: il viaggio epico e ribelle che accomuna animali e umani» dal quale si evince l’ennesima comparazione che – di fatto – non si trova in alcun manuale o libro di zoologia, né di etologia.

Ma andiamo alle pagine che parlano dell’adolescenza.



Come si può leggere, quando le autrici si riferiscono alla pubertà la descrivono come «…un processo biologico, avviato dagli ormoni, che ha come conseguenza la capacità riproduttiva di un animale».

Sarà infatti capitato a tutti voi di osservare un cambiamento nel comportamento del cane quando arriva la pubertà: il cane comincia a mettervi in discussione e abbandona con i conspecifici quell’ottimismo relazionale tipico dei cuccioli e dei subadulti al quale si sostituisce qualche atteggiamento agonistico.

La Horowitz e la Bowers ne parlano però in modo strettamente fisiologico, come se questo fenomeno non portasse in sé alcuna implicazione comportamentale.



Diverso è il discorso riguardo l’adolescenza che descrivono come «…una fase nella quale si fanno esperienze cruciali, si assimilano informazioni dai propri modelli e ci si mette alla prova contro i pari, i fratelli ed i genitori».

Questa frase sembra estrapolata da un manuale di pedagogia, perché i cani – in realtà - fanno esperienze cruciali e assimilano le informazioni dai propri modelli prima che arrivi la pubertà.

Dai novanta giorni in poi sono animali allontanati dalla madre, che fanno esperienze ogni giorno, misurandosi con i conspecifici attraverso il gioco, le cure alloparentali e l’interazione continua.

Stando alla zoologia, e non all’autoreferenzialità, le fasi del cane si dividono in:

- fase neonatale,

- fase del cucciolo

- fase del subadulto (alcuni autori riportano “preadulto”)

- fase dell’adulto

- fase delle stagioni riproduttive

- fase della gravidanza

- fase dell’allattamento (alcune fonti riuniscono queste ultime due fasi)

- fase dell’invecchiamento.

Ed è proprio nella fase del subadulto – quindi quando gli individui sono completamente sviluppati, ma non ancora in grado di riprodursi (sessualmente non maturi) – che accade tutto ciò che viene descritto dalla Horowitz e dalla Bowers quando si riferiscono all’adolescenza.

L’arrivo della pubertà, grazie al cambiamento ormonale e ai modelli appresi nella fase subadulta, avvia anche la scalata gerarchica, ma solo nel caso in cui il soggetto disponga di uno status (endogeno) di un certo tipo che comunque avrà già avuto modo di far emergere saltuariamente nelle interazioni intraspecifiche prepuberali, e nel caso in cui dovesse far parte di un gruppo sociale.



Ma cos’è, nell’ambito della psicologia e dell’antropologia umana, l’adolescenza?

Il primo a studiarla, proponendo un’interessante teoria (la teoria biogenetica), fu lo psicologo americano Stanley Hall (che non è Edward Hall, l’antropologo che studiò la prossemica; altra disciplina trasferita impropriamente in ambito cinofilo), considerato il padre della psicologia dell'adolescenza, il quale fece conoscere negli USA Sigmund Freud e la teoria della psicoanalisi.



Hall era molto influenzato dalle scoperte di Charles Darwin e dal concetto di evoluzione e formulò la cosiddetta “legge della ricapitolazione” (descritta da Ernst Haeckel, e sostituita oggi dalla biologia evolutiva dello sviluppo), partendo dal presupposto che lo sviluppo dell'individuo è filogeneticamente orientato nello sviluppo da bambino ad adulto, nel quale si percorrono di nuovo gli stadi della storia dell'umanità.

Stanley Hall fu il primo a rendersi conto che la mente di un bambino è differente da quella di un adolescente. Mentre il primo è fortemente interessato al mondo materiale, al mondo esterno e ai suoi fenomeni, l'adolescente sviluppa una vita interiore che si realizza attraverso una capacità d'introversione, la quale crea stati d'animo e sentimenti di un certo tipo. D’altra parte l’adolescenza è piena di sentimenti contrastanti quali dolore ed entusiasmo, tempeste emozionali, innamoramenti appassionati e irrazionali, odi ciechi, fiducia smisurata per le proprie forze e disperazione per i propri limiti, rinuncia romantica e autodistruzione. Insomma: l’adolescenza umana è l'età delle tempeste emotive. 

Le considerazioni generali di Hall, così come quelle di Freud sull’adolescenza vacillarono nel momento in cui l’antropologa statunitense Margaret Mead dimostrò insieme a Ruth Benedict che l’adolescenza è sostanzialmente un prodotto della cultura.


Le due colleghe studiarono gli adolescenti delle Isole Samoa (Oceano Pacifico), in quella che ritenevano – e lo era – una società primitiva.

L'adolescenza negli isolani era poco percepita, visto e considerato che fin dalla tenera età i bambini avevano un'educazione compiuta sulla sessualità e vivevano un rapporto quotidiano con questo fenomeno naturale.

Mead e Benedict osservarono che il passaggio dalla fanciullezza alla maturità era vissuto senza le problematiche dell'adolescenza tipiche del mondo occidentale, scoprendo che esiste una forte relazione tra l'adolescenza e il grado di complessità della società in cui essa vive. In sostanza, una società complessa e complicata come quella nostra, costringe l'adolescente a repentini cambiamenti, ed è proprio per questo che l’adolescenza diventa più lunga e soprattutto più conflittuale.

Le due antropologhe conclusero che anche nella sfera sessuale vissuta dall’adolescente si ritrova e si riflette la cultura della società nella quale vive, quindi che il soddisfacimento sia permesso come nelle Isole Samoa, oppure represso come nel mondo occidentale, l'adolescente compie scelte socialmente indicate.

Il lavoro delle due antropologhe si avvicinava molto a quella che poi si sarebbe chiamata “etologia umana”, quindi lo studio dell’essere umano in chiave squisitamente naturalistica (Desmond Morris, Richard Dawkins, Irenäus Eibl-Eibesfeldt, per fare tre nomi in ordine sparso), e una delle conclusioni alle quali giunsero fu che «lo sviluppo della personalità è influenzato contemporaneamente da fattori ereditari, culturali ed appartenenti alla storia personale». Un modello sociologico e antropologico che dà centralità all’ambiente, il quale diventa essenziale nell’evoluzione dell’adolescenza e della sua fenomenologia; un modello che si oppone a quello biologico e fisiologico (pubertà  VS adolescenza). 




In questa scalcinata cinofilia italiana il termine adolescenza – descritto puntualmente con tanto di # hashtag  - è diventato un modo per spiegare ogni problema che possa emergere con l’arrivo della pubertà canina. In una diretta Facebook ho sentito addirittura dire da un influencer che (CIT) «Il cane a quell’età è come quando noi volevamo scoparci anche il palo della luce per quanto eravamo in preda agli ormoni» senza tenere conto che i cani maschi, a differenza dell’uomo, devono avere dall’altra parte una femmina in calore che li attivi sotto questo profilo.



E qui vale la pena tornare all’antropologia, alla zoologia e all’evoluzione umana.


In tutti gli animali la maturazione sessuale precede di poco il diventare adulti. Nell’uomo le cose non coincidono affatto: tra la maturazione delle gonadi e la fine della fase evolutiva della personalità (che oggi è stata spostata a 23 anni) c’è un bel lasso di tempo. La maturazione delle aree cerebrali avviene con tempi non omogenei e differenziati, così come quella delle aree prefrontali, deputate al controllo degli impulsi e all’inibizione dei comportamenti, avviene nel cervello degli adolescenti più tardi rispetto alle altre aree.

Perché la natura abbia deciso questo nessuno lo sa, ma è presumibile che c’entri la complessità dell’essere umano, tale che per diventare adulto deve acquisire ben altre competenze che non strofinarsi con un partner o procreare come fa qualunque animale non umano. Deve sostanzialmente prendersi sulle spalle la responsabilità dell’esistenza, e quindi avere una qualche idea su ciò che questo significhi.

La nostra cultura ha liberalizzato la sessualità affrancandola dal fine procreativo e dall’affettività: due ragazzi si incontrano, si piacciono, fanno l’amore con le dovute precauzioni, e la cosa finisce lì.

Possibile che la pratica strumentale della sessualità, vale a dire esercitata solo al fine di ricavarne un piacere narcisistico, non rientri del tutto in un ordine naturale, inerente cioè la natura umana; una “forzatura” culturale?

Una risposta possibile verte sul confutare il luogo comune che nell’uomo la sessualità sia solo espressiva di un istinto naturale, ma negli animali le cose stanno così. L’istinto sessuale ha una finalità univoca: la procreazione. Nell’uomo, e solo nell’uomo (a parte i Bonobo) la sessualità si associa al piacere. Negli animali c’è solo la fregola, la quale è però una tensione istintuale programmata per scaricarsi nell’atto riproduttivo.

A che serve il piacere sessuale, uno dei più intensi che l’uomo possa provare? «A dare gusto alla vita» risponderebbe qualcuno, ma è difficile attribuire alla natura un intento del genere.

In realtà, sotto il profilo evoluzionistico, la comparsa del piacere è avvenuta in parallelo con il fatto che la femmina umana è diventata perennemente ricettiva (calore non visibile), mettendo i maschi al riparo dallo scannarsi per conquistare quella in calore.

Il piacere, associato alla perpetua disponibilità femminile, è uno stratagemma evolutivo finalizzato a incrementare i rapporti sessuali. Ma che bisogno c’era di una cosa del genere? Non sarebbe bastato l’istinto che negli animali non umani funziona benissimo? Probabilmente no, perché i rapporti sessuali umani non sono solo finalizzati naturalmente alla procreazione, ma alla necessità di farsi carico di un cucciolo prematuro e neotenico che ha bisogno di essere protetto, curato e vezzeggiato per un numero indefinito di anni.

Senza la spinta del piacere, gli esseri umani sarebbero stati indotti a pensarci non una, ma tre volte prima di correre il rischio di mettere al mondo un figlio. E infatti, capita la cosa, l’essere umano ha trovato le contromisure con la conseguente diminuzione della natalità.

Il piacere è dunque uno stratagemma che indora la pillola delle sue conseguenze, e dato che l’allevamento di un bambino impegna non solo il padre e la madre, ma un intero gruppo di persone (tant’è che da quando la famiglia si è nuclearizzata il calo delle nascite è stato continuo), era inevitabile che nascesse la famiglia come “agenzia di riproduzione sociale”.

Questo significa né più, né meno, che nell’uomo la sessualità, non comporta solo la procreazione, ma la necessità che qualcuno si faccia poi carico per anni dell’accudimento e dell’allevamento di un cucciolo terribilmente impegnativo, ed è anche per questo che la nostra specie è predisposta alla formazione di vincoli affettivi particolarmente forti dall'organigramma piuttosto esteso (madre, padre, zii, nonni, sorelle, cugini, etc.)

Posto quindi che il piacere sia un insidioso stratagemma evoluzionistico, perché gli esseri umani non avrebbero il diritto di sciogliere il nesso tra affettività e sessualità, rivendicando al contempo l’esercizio di quest’ultima in termini di piacere fine a sé stesso?

La cultura e le regole che ci diamo non servono proprio a questo? A correggere gli “errori” della natura?

Ed eccoci quindi tornati all’etologia umana e agli studi di Margaret Mead che vede nell’adolescenza un prodotto della cultura.




Chiudo questo articolo sull’adolescenza con le parole del Prof. Alessandro Tolomelli, cattedratico dell’Università di Bologna.

 

«Se pensiamo che l’adolescenza non esista allora possiamo guardare all’adolescente come a un soggetto in carne e ossa e non come a un simulacro bersaglio di stereotipi e pregiudizi che hanno la funzione di rassicurare chi guarda, ma non sono utili per instaurare una relazione significativa e finalizzata alla formazione del sé. Agire come se “l’adolescenza non esistesse” è infine un modo per praticare una dissidenza pedagogica rispetto alle regole e norme del modello dominante nel mondo adulto e indicare così una possibile direzione di vita più indipendente anche per gli ex adolescenti».

 

Ricordate: negli animali non umani esiste la pubertà, non l’adolescenza. Si parla quindi di soggetti puberi, non di adolescenti. Ecco il motivo per cui non troverete mai il termine adolescenza nei manuali di zoologia o nei libri di etologia.


Claudio Mangini




NOTA: sicuramente alcuni lettori esclameranno «Ehhh va beh! Adolescenza o pubertà è uguale: basta farsi capire dalle Sciuremarie!» ma personalmente ho mai amato questo atteggiamento semplicistico, spinto più dalla povertà di contenuti che non dal bisogno di arrivare a più gente possibile. I termini hanno un senso compiuto, e credo che molti di loro siano utilizzati impropriamente per semplice ignoranza.


Autori di riferimento: Stanley Hall, Ernst Haeckel, Margaret Mead, Desmond Morris, Richard Dawkins, Terrence Deacon, Massimo Recalcati, Jean Piaget, Luigi Anepeta, Alexa Colgrove Curtis, Alessandro Tolomelli, Irenäus Eibl-Eibesfeldt, Stefano Laffi, Erik Erikson, Robert James Havighurst, 

Per maggiori approfondimenti scrivere alla mail manginiclaudio@yahoo.com

lunedì 8 gennaio 2024

I lupi del Mulino Bianco

 


Partiamo da questo post della pagina Facebook Biologicamente del 7 gennaio 2024.








La cosa che colpisce è la frase, di stampo promozionale, di un’educatrice cinofila la quale, nel leggere e condividere questo post scrive «… e se lo dice Biologicamente» abbellendo il tutto con un bel cuore.

 



Seppure si tratti di uno scritto che quantomeno allega uno straccio di fonti, tutto il testo gira su un (falso) equivoco relativo alla figura del “lupo Alpha”, equiparato dalla famigerata "opinione diffusa" ad un (CIT) «boss che impone il suo status sociale da bulletto, colui che, prima di tutti, avrebbe il sacrosanto diritto di sguinzagliare il suo pipo lupesco e inseminare la sua regina: la femmina alfa».

In sostanza, questo curioso animale sarebbe – secondo il sentir comune - un bullo di periferia dal primario accesso all’accoppiamento, e per specificare meglio, l’autore conclude il suo pensiero con (CIT) «…è come se ci fosse una sorta di gerarchia: re e regina al vertice della piramide, seguiti dal maschio beta fino al maschio omega, quello maltrattato da tutti i lupi che lo precedono. Quindi, il lupo alfa esiste? No».

In realtà, da quali ricercatori o studiosi del lupo l’autore abbia letto tutte queste cose resta un mistero. Diciamo che forse fa leva sul famoso “sentito dire” dell’altrettanto famoso “cuggino” che peraltro non ho mai sentito con le mie orecchie. In subordine mi viene però l’idea che a promuovere tutte queste sciocchezze possa essere stato qualcuno del mondo cinofilo, ma anche in questo caso, nessun collega è mai venuto a dirmelo di persona. Mistero.



Prendendo dunque per buono quello che l’autore scrive, in assenza di fonti, veniamo al contenuto.

(CIT) «Il lupo Alpha non esiste».

Esiste eccome; così come esiste una coppia Alpha: peraltro l’unica a riprodursi. E fu proprio lo stesso Prof. David Mech (citato tra le fonti) a dimostrarlo dopo aver preso una clamorosa cantonata nella quale riprendeva e avallava gli studi fatti nel 1947 dallo studioso Rudolph Schenkel. Anzi: il Prof. Mech, una volta accortosi dell’errore, dovette andare in causa con l’editore del libro “The Wolf: Ecology and Behaviour of an Endangered Species” (1970) per toglierlo dalla circolazione e vietarne le ristampe, ma senza successo. Vale la pena sottolineare che nello stesso libro viene introdotto il concetto di “capobranco” e di “alpha roll”, così come credo sia giusto ricordare che Rudolph Schenkel, però, scrisse nella prima pagina che le sue osservazioni erano state fatte su animali in cattività, esprimendo al contempo possibilità di errori proprio per questo fatto.



Biologicamente continua poi nella sua arringa scrivendo (CIT) «In natura, in un branco di lupi, la figura del maschio alfa non esiste» omettendo di specificare «quel tipo di maschio Alpha» - quello descritto dal fantomatico cuggino - ma non stupisce, visto che tutto l’articolo sembra voler descrivere il lupo come un animale uscito dalla pubblicità del Mulino Bianco, ed è comprensibile visto il periodo storico che stiamo attraversando: un brutto momento in cui ogni scritto o azione è sotto il ricatto dell’ipocrita politically correct (che nelle discipline zoologiche non esiste).

Ma sì: diciamo quindi che “un branco di lupi è più simile ad un’impresa familiare iscritta al registro fornitori della Disney” – cosicché aumentino i like e gli iscritti al canale. Lasciamo da parte la zoologia, visto che perfino nei moderni corsi per istruttori cinofili non si dice più la verità etologica dei cani, ma ciò che gli iscritti vogliono sentirsi dire.

L’autore passa poi in rassegna alcuni status sociali scrivendo (CIT) «Non esistono neanche i suoi subalterni beta e omega» andando contro sia ad ogni studio delle scienze sociali che alla zoologia, la quale descrive la gerarchia come un “sistema di organizzazione che s’incontra a diversi livelli nel controllo e nell’organizzazione del comportamento” (dizionario di etologia, Danilo Mainardi et altri). Sempre la stessa disciplina, così come l’etologia, descrive in modo piuttosto documentato il ruolo degli helper (chiamati anche “balia” – che sono dei “Beta” specializzati), piuttosto utili per la crescita dei cuccioli, così come ogni ruolo e status dell’intero sistema sociale.



Ora, sappiamo bene che quello dei lupi è un gruppo familiare nel quale la coppia Alpha è l’unica a riprodursi, ma pensare che i figli siano tutti gregari è un errore piuttosto grossolano, visto che alcuni di loro diventeranno degli Alpha passata la pubertà per formare a loro volta un nuovo gruppo sociale.

Tralasciando cosa siano i “Beta” e gli “Omega” – soprattutto nei cani, i quali hanno un diverso sistema sociale ben descritto da Bekoff (2019) – dobbiamo sempre tenere presente che trattasi di bias che possono o meno esprimersi a seconda dell’ambiente nel quale vivono. Sostenere che non esistono i sistemi di status, senza addurre alcuna prova nonostante le evidenze (vedi gli helper), è tutto fuorché autorevole.

Ultimamente, seppure solo nell’Università di GOOGLE, in riferimento alla coppia Alpha si sente spesso parlare di “coppia riproduttrice”, ma questo grazie all’ipocrisia del politically correct di cui sopra, non certo per altro.


Che dire poi dell’antropocentrico «Papà lupo e mamma lupo»? O di quel “addirittura” riferito al fatto che i lupi collaborano tra di loro per favorire la crescita della prole? 

Molte persone mi hanno chiesto cosa ne pensassi di questo articolo che, come si vede, vanta ben oltre trecento condivisioni.

Volendo riassumere, direi che se l’intento del post era quello di fare divulgazione sul lupo, è a mio avviso un'occasione mancata. In questo modo non si fa certo un buon servizio alla specie Canis lupus, tenendo presente che nemmeno i bambini credono più alla famiglia del Mulino Bianco.

Di fatto, la coppia Alpha esiste, così come esistono i sistemi di status e i ruoli, ma non mi meraviglierei di leggere tra qualche anno, sempre in nome dello squallido e ipocrita politically correct, qualcosa sul veganismo dei lupi. 




Claudio Mangini