mercoledì 9 dicembre 2015

La Piramide di Maslow - facciamo chiarezza



Faccio finta, per un momento, che i lettori conoscano gli studi di Maslow (piramide dei bisogni - detta anche "Piramide di Maslow") esponendo le criticità, peraltro note da tempo, ed il mio personale punto di vista sulla questione.



Partiamo innanzi tutto dalla definizione di “bisogno”.
In psicologia viene definito come “la mancanza totale o parziale di uno o più elementi che costituiscono il benessere del soggetto”.

Tra le sue teorie, Abraham Maslow sottolineò il fatto che <<il soddisfacimento di un bisogno renda poco sensibili gli individui ad ulteriori stimoli dello stesso tipo, spostando la questione su bisogni di livello più alto>>.
All’analisi di Maslow bisogna accreditare il cambiamento di rotta innescato dall’avvento della psicologia umanistica, istituzionalizzata da Maslow attraverso la fondazione nel 1962 dell’American Association for Humanistic Psychology la quale, più che una teoria sistematica della personalità umana,  appare più come un insieme di orientamenti (peraltro fondamentali nel meccanismo dei Cani Tutor).

L’elemento  comune di tali orientamenti è - riferendosi ai cani - l’aver accentuato la “tendenza attualizzante” di ogni soggetto, intesa come capacità del cane di tutelare la propria sopravvivenza, attraverso il soddisfacimento dei bisogni primari, e promuovere il proprio sviluppo, soddisfacendo i bisogni di ordine superiore; e nell’analisi di Maslow troviamo infatti insito il concetto di “cambiamento evolutivo”.
I tentativi di rivedere in modo più approfondito e critico la teoria di Maslow e le successive rielaborazioni, viziata e viziate da un’eccessiva semplificazione (per quanto le seconde siano più affinate e realistiche), mi portano a non condividere alcune incongruenze sostanziali evidenziate dall'analisi maslowiana.
In primo luogo, da un punto di vista gestionale, vanno rilevati possibili elementi di contrasto fra il processo evolutivo del cane e quello del contesto sociale ed ambientale nel quale è inserito.
Se da una parte il progresso psicologico dell’uomo è diretto a raggiungere condizioni organizzative di autonomia ed indipendenza, in cui si possa quindi esercitare il controllo della propria sfera di influenza, quello del cane – per etogramma -  rispecchia i canoni della cooperazione tra specie e partnership di cui è forse uno dei massimi esponenti.

Il modello di Maslow è fortemente centrato sul meccanismo di autodeterminazione dell’individuo, facendo risalire le spinte motivazionali esclusivamente a fattori interni, ignorando quel principio base universalmente riconosciuto (non solo dagli psicologi) che dice: per capire a fondo il comportamento, non si può prescindere dal fatto che esso risulta essere la determinante dell’interazione tra l’individuo, con le sue peculiarità, la sua soggettività e suoi schemi mentali, e le caratteristiche ambientali.  (Lorenz, Tinbergen ed altri).
Un proprietario che volesse utilizzare il modello della gerarchia dei bisogni, dovrebbe quindi essere un abile psicologo, o comunque raccogliere informazioni su tutte le aree dell’esistenza in cui i cani ricercano il soddisfacimento dei bisogni a vari livelli, e ciò è ovviamente impossibile, a meno che non si prenda l’intera questione per sommi capi ed in modo molto superficiale.
Un altro aspetto criticabile – non certo minore - è la rigidità con la quale Abraham Maslow definì lo schema che spiegherebbe il comportamento dell’individuo.
Lo psicologo americano ipotizzava infatti che lo sviluppo professionale (e quindi umano) del soggetto avviene attraverso un percorso di soddisfazione dei bisogni, quindi secondo un iter a senso unico ascendente, per di più graduale, senza prendere in considerazione il fatto che inizialmente il soggetto si trovi in realtà in una posizione differente da quella in cui ha la necessità di soddisfare i bisogni esistenziali, andando pertanto in palese contraddizione con il “qui” e “ora” (hic et nunc - Martin Heidegger). Inoltre il soggetto – cane o uomo che sia - può mettere in atto comportamenti finalizzati alla soddisfazione di bisogni seguendo un percorso diverso da quello ascendente, e non è detto che questi  permanga sempre allo stesso livello fino a che  il relativo bisogno non sia  stato soddisfatto.
Allo stesso modo non è detto che un soggetto sia motivato dalla soddisfazione esclusiva di un unico tipo di bisogno; e anche quando si tenda alla soddisfazione di un unico tipo di bisogno, ci potremmo trovare di fronte al risultato di svariate motivazioni, perfino conflittuali tra loro. 
Quindi, se è vero che alcuni bisogni sono percepiti come “primari” rispetto ad altri (un cane che debba dedicare la maggior parte del tempo a procurarsi il cibo non si darà molto da fare per giocare con il conspecifico), è altrettanto vero che la motivazione ad autorealizzarsi possa in alcuni casi avere temporaneamente il sopravvento sulle necessità primarie dell’individuo, come ad esempio, il dormire.
Basti pensare ad un cane dotato di una perfetta, quanto accentuata socialità intraspecifica che segue comunque il suo trainer, nonostante nel campo di addestramento ci siano dei conspecifici che giocano tra loro.

In base a tali critiche si deduce che lo schema di analisi della motivazione, deve certamente focalizzarsi sulla necessaria soddisfazione delle varie  categorie di bisogni identificate in modo piuttosto generico e sommario da Abraham Maslow, ma non può avere aprioristicamente una struttura gerarchica, né evidenziare una dinamica prevedibile.
Queste semplici considerazioni, facilmente desumibili dall’osservazione del mutevole comportamento canino (e umano), riducono drasticamente la portata dell’approccio di Maslow, sia sotto il profilo teorico che sotto il profilo pratico. Inoltre Maslow non ha fornito alcun elemento empirico che definisca  operativamente i vari bisogni attraverso concetti concreti.
Consideriamo oltretutto che in questo caso la teoria è difficile da mettere in pratica, visto che non offre precisi strumenti relazionali di leverage  (quindi di significativo beneficio) nei confronti del cane, perché lo stesso bisogno - a seconda del soggetto - può essere soddisfatto in maniera diversa.
Su queste evidenze, e su quanto ho cercato di sintetizzare, si basò peraltro la successiva modificazione della teoria maslowiana ad opera dello psicologo americano Clayton Alderfer  (recentemente scomparso) nella sua famosa  Teoria E.R.C. (“esistenza”, “relazione”, “crescita”), in cui accorpa i cinque livelli di bisogno in tre livelli definiti - appunto -  “esistenziali”, “relazionali” e “di crescita”.
I primi racchiudono i bisogni fisiologici e di sicurezza, i secondi quelli sociali o di appartenenza, i bisogni di crescita, i terzi quelli di stima e di autorealizzazione.
Ad una prima osservazione questo schema potrebbe sembrare un semplice tentativo di raggruppare le categorie dei bisogni di Maslow, ma ad un’attenta analisi non può sfuggire l’innovazione principale che risiede nell’idea di “continuum” tra i diversi livelli, in contrapposizione quindi alla gerarchia maslowiana, basata su un meccanismo di soddisfazione/progressione al quale Alderfer integra un meccanismo di “frustrazione/regressione”, che l’idea di scala o di piramide già implicitamente conteneva.
In altre parole la teoria E.R.C. riconosce che l’ordine di importanza delle tre categorie può variare da individuo a individuo e – soprattutto - che da uno stato ci si possa comunque spostare verso qualsiasi altro senza necessariamente seguire il verso indicato da Maslow.

L’intuizione di Maslow, relativa alla compresenza di fattori basilari e fattori realmente motivanti, ispirò una rielaborazione ad opera dell’americano Frederick Herzberg nota come "teoria dei fattori duali”, nella quale vengono definiti i cosiddetti “fattori motivanti” e quelli “igienici” (fattori di insoddisfazione; nulla a che vedere con il WC).
In sostanza questa teoria sfida la convinzione radicata sul modo in cui il livello di soddisfazione influenza il livello di motivazione e la conseguente prestazione.
Herzberg dimostra che tutto ciò che riguarda la relazione nelle sue infinite variabili non può produrre una effettiva soddisfazione, ma che i miglioramenti  possono portare solo ad una diminuzione dell’insoddisfazione, che non si tradurrà nella comparsa di una soddisfazione positiva.
Questo perché per ottenere una soddisfazione positiva occorre agire su altri fattori riguardanti la natura stessa della relazione e sulle motivazioni soggettive del cane e del proprietario.
Soddisfazione” ed “insoddisfazione” non sono dunque valori positivi e negativi posti su un’unica dimensione in opposizione tra loro, ma danno luogo a due dimensioni distinte che si muovono su due piani paralleli.
In sostanza, i fattori igienici creano insoddisfazione se sono assenti, ma quando presenti riducono il livello di insoddisfazione senza per questo  aumentare il livello di motivazione.
I fattori motivanti, invece, migliorano effettivamente la prestazione poiché modificano la natura stessa della relazione uomo-cane, rendendola maggiormente stimolante e intrinsecamente gratificante su entrambi i fronti.

Esiste poi un ulteriore selezione – direi un affinamento – dell’analisi dei bisogni; e ce la riporta lo psicologo statunitense David McClelland (pietra miliare per lo studio delle determinanti cognitive della motivazione) che identifica tre  motivazioni fondamentali:
- Il bisogno della riuscita, il quale rispecchia il desiderio di successo e la paura del fallimento;
- Il bisogno di appartenenza, il quale combina i desideri di protezione e socialità (epimeletico ed et-epimeletico) con la conseguente paura per il rifiuto da parte del gruppo sociale;
- Il bisogno di potere, che riflette i desideri (quindi non una necessità) di dominio e il timore di dipendenza.
Proprio in questo terzo elemento  McClelland introduce pertanto una nuova tipologia di bisogno per spiegare il fenomeno motivazionale: il “bisogno di successo”.

Per diversi anni gli studiosi del comportamento umano avevano osservato che alcune persone esprimevano un’intensa ambizione verso il successo, che già all’epoca risultava leggermente diverso dalla autorealizzazione di stampo maslowiano, ma altri soggetti invece non sembravano esserne interessati; scoprendo durante la quantificazione che addirittura rappresentavano la maggioranza.
Venne osservato in particolare che nelle organizzazioni sociali esistono differenze significative tra le prestazioni medie e quelle eccellenti, e che quest’ultime non sono caratterizzate solo da maggiori conoscenze/competenze, ma da caratteristiche individuali quali motivazione e determinazione.
Sulla base di queste conclusioni, John William Atkinson capì che la motivazione nasce dall’esigenza di misurare le proprie abilità attraverso il raggiungimento di successi nelle attività valutate come importanti, riprendendo quindi il “concetto di conflitto” introdotto dallo psicologo tedesco Kurt Lewin (tanto caro agli studenti dei miei corsi) aggiungendo però una nuova componente: quella emotiva.

Secondo Atkinson la motivazione dipende da due componenti  motivazionali contrapposte, speculari e potenzialmente conflittuali:
- la tendenza al successo, definita anche come speranza di riuscita;
- la tendenza ad evitare il fallimento, definita come paura dell’insuccesso.

Di conseguenza, l’inclinazione di ciascun individuo al conseguimento delle proprie mete, rende stimolanti compiti proporzionati alle proprie risorse, non troppo difficili, perché produrrebbero rinunce; non troppo facili perché poco stimolanti.
Mentre la tendenza al successo (ovviamente inteso come “raggiungimento di un obbiettivo", nda) porta a volere affrontare i compiti specifici e quindi alla motivazione, la tendenza a evitare il fallimento porta ad un atteggiamento di ritiro o fuga nei confronti delle situazioni, alla poca persistenza, alla noia, ed al disinteresse: quindi alla demotivazione .
McClelland dimostra al contempo una stretta correlazione tra “motivazione al successo” e “rendimento” che spiega attraverso i processi di autostima, i quali derivano da esperienze pregresse positive di realizzazione e successo.
In questo modo viene pertanto presa in considerazione la dimensione affettiva della motivazione, caratterizzata da una reazione di anticipazione della finalità e basata su associazioni di piacere e dolore stabilitesi in passato, per cui l’individuo è disposto a compiere uno sforzo per raggiungere - o evitare - un particolare stato.

In sostanza McClelland parte dalla “motivazione alla riuscita” e giunge a descrivere tre tipi di motivazioni:
1) riuscire ed evitare il fallimento;
2) affiliarsi e ad evitare l’isolamento;
3) evitare la dipendenza.

La triade dei bisogni non sembrerebbe più quindi una semplice riaggregazione dei bisogni descritti nella Piramide di Maslow, ma sottolinea il fatto che il bisogno di autorealizzarsi sta in mezzo agli altri due tipi di bisogni - quello di affiliazione e quello di potere - declinandosi tra due poli opposti che sono peraltro mediati da una  tendenza individuale che ritiene strumentale - ai fini della riuscita -  l’imporsi sugli altri, e da una tendenza sociale che legittima il successo solo nella misura in cui si realizza all’interno di valori condivisi dal gruppo sociale (vedi capitolo XII del mio libro “Parlare da cani; storia di una relazione”) .

Sul piano applicativo McClelland descrive le principali caratteristiche che un soggetto solitamente esplicita nelle sue funzioni specifiche, suggerendo indirettamente come allineare, laddove sia possibile, le necessità dell’individuo ai requisiti della mansione (è il caso degli “specialisti”).
Un cane con un alto bisogno di affiliazione (un “estroverso sinistro” per chi conosce la Carta Cinometrica Caratteriale)  difficilmente gradisce una buona dose di autonomia, poiché ciò potrebbe portarlo – secondo le sue caratteristiche endogene – alla percezione di un relativo isolamento e all’impossibilità di interagire e condividere obiettivi (ma anche emozioni) con i conspecifici o con il proprietario.
La loro collocazione ideale è infatti all’interno di quei ruoli in cui possono esprimere la loro capacità di stabilire relazioni positive (“A side”) con gli altri e di integrarsi (ma questo vale per tutti i “sinistri”; introversi o estroversi) e in quegli ambiti nei quali è richiesta una grande capacità di coordinamento con gli altri soggetti e in cui si ha la possibilità di sentirsi parte integrante di un team.

Per concludere, il “bisogno” in senso psicologico non è sempre sovrapponibile a quello psicofisiologico (vedi l’esempio della dipendenza psicologica) e la spinta a ricercare determinati elementi non è necessariamente una motivazione sufficiente per agire, visto che  esistono pulsioni che non trovano la loro origine in uno stato di carenza.
La Piramide di Malsow semplifica in maniera drastica i reali bisogni;  soprattutto il loro livello di importanza.
Sarebbe quindi corretta in termini prettamente funzionali, quanto relativi più alla semplice sopravvivenza dell'individuo, che non in termini di affermazione sociale, ed è proprio questo il nocciolo della questione.

Durante i miei studi sul tema notai che altre critiche – qua e là - vertevano sul fatto che la successione dei livelli potrebbe non corrispondere ad uno stato oggettivo condivisibile per tutti i soggetti, ed infatti lo stesso Maslow nel suo libro “Toward a Psychology of Being” del 1968 aggiunse alcuni livelli che aveva inizialmente ignorato.

Come sostenne Henry Alexander Murray nel 1938 <<Il bisogno è istintivo>> mettendo per primo in correlazione la psicologia della motivazione con quella che definì la “tassonomia dei bisogni”, e focalizzando le sue ricerche sulla “motivazione alla riuscita” (achievement).

Claudio Mangini