Il titolo di questo articolo
non ha un verbo sbagliato.
Nel dialetto marchigiano “rportare” significa “quadrare” – tutto rporta; tutto quadra.
Ma cosa c’entra il dialetto
marchigiano con il racconto di Antoine de Saint-Exupéry?
E, soprattutto, cosa c’entra
tutto questo con la cinofilia?
Del mio primo seminario,
tenuto ormai oltre quindici anni fa, ho un ricordo preciso, a parte il luogo
dove si svolse e la mia incredulità dovuta al fatto che fossi stato chiamato a parlar di cani da qualcuno che non
conoscevo.
In quella sede, dopo che mi
avevano presentato, esordii con una frase che ammutolì i presenti:
<<L’essenziale è
invisibile agli occhi>>
La Cinometria Caratteriale aveva già compiuto una decina d’anni, e con lei, il Meccanismo dei Cani Tutor, il quale era già stato setacciato dal mondo della ricerca scientifica.
Il pubblico venne
sostanzialmente per queste due novità e per osservare da vicino il mio modo di lavorare con i cani, ma restarono
particolarmente colpiti dalla lezione - mi si passi il termine – “a titolo di
prefazione” che tenni sul racconto “Il
piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, dal quale il sintagma è
tratto.
Restai così colpito
dall’interesse suscitato che ancora oggi, sia con i miei allievi che nei miei
seminari, piuttosto che in teatro, lo ripropongo sempre volentieri.
Per far comprendere al meglio
la serie di parallelismi che di lì a poco avrei snocciolato, declinai
brevemente le mie origini e un piccolo spaccato della mia vita.
Tutti sapevano più o meno che
arrivavo dalle Marche, che avevo metà sangue nord-europeo, che sono cresciuto
tra Milano e la Maremma, e che amo indossare il kilt.
Pochi però conoscevano il
motivo per cui scelsi proprio l’appennino marchigiano per vivere, pur non
avendo apparentemente nulla a che spartire con quella terra.
Al di là della casualità degli
eventi che mi ci condussero, e la biodiversità che ogni etologo o naturalista
vorrebbe avere a portata di mano, decisi di restarci perché qualcosa di non
conosciuto, di nascosto, quanto di magnetico, si impresse in me nel momento in
cui mi trovai di fronte al Monte Sibilla – o “La Sibilla” - come
confidenzialmente la chiamo .
Si sa: la montagna – per René
Daumal – è “la porta visibile dell’invisibile”
- “il legame tra la terra ed il cielo”,
e per tentare dunque un’esplorazione di tipo filosofico de “Il piccolo
Principe”, decisi di partire dalla tradizione dei Monti Sibillini e degli
esseri fatati che lo abitano: i “Mazzamurelli”.
Da secoli, coloro che abitano
queste terre sono certi di una cosa quando vedono i cavalli lasciati liberi al
pascolo tornare di sera con le criniere intrecciate: a pettinarli così sono
stati alcuni esseri fatati.
La tradizione popolare
sibillinica raccomanda vivamente di non strecciare in nessun caso i ricami che
si scoprono tra le criniere, perché si attirerebbero su di sé le ire e i
dispetti malefici dei Mazzamurelli.
In realtà, dentro questa
credenza – come nel racconto di Saint-Exupéry - è celato qualcosa di molto più
profondo: una visione ben precisa della realtà.
Ed ecco il dato filosofico.
Quando si dice che “nello scoprire le criniere dei cavalli
intrecciati noi percepiamo la presenza degli esseri fatati” è come se la
tradizione popolare riconoscesse all’interno della realtà qualcosa che non si
mostra in evidenza; qualcosa che non si porge ai cinque sensi: qualcosa di
invisibile agli occhi.
Gli essere fatati della
tradizione dei Monti Sibillini – che non a caso si chiamano così - ci
raccontano che essi esistono, pur non apparendo. Ed ecco per cui le criniere
dei cavalli non debbano essere strecciate.
In sostanza, fuori dalla
metafora ci dicono che la realtà non si esaurisce con l’esperienza empirica.
“L’essenziale è invisibile
agli occhi” non è dunque solo la citazione di uno dei più grandi testi di
filosofia del 900, ma la sorgente – la base - del mio lavoro con gli animali.
Sotto la superficie del
racconto trovate Jung e de Saint-Exupéry in una mirabile sintesi. Trovate gli
archetipi, il profondo, l’inconscio, il
“genius loci” (lo spirito di un
luogo, e quindi della cultura che lo abita e che ha prodotto le razze secondo
una funzione tipica del luogo e del contesto); i “significati” ed i “significanti”
(tanto cari al mio Maestro Carmelo Bene), passando per le facoltà gnoseologiche
di Lorenz, estendendosi a Shakespeare in un lunghissimo e articolato legame.
Tornando al racconto di
Antoine de Saint-Exupéry, uno dei due grandi segreti che la volpe rivela al
piccolo Principe prima di andarsene è infatti <<Non si conoscono che le cose che si addomesticano>> e sono
proprio queste cose di cui bisogna avere cura.
Da qui la ricerca filosofica
del termine “domestico” – da “domus”
– casa. Del “fidarsi” e “affidarsi”. Del “non poter fare a meno”.
Dalla casa, alla famiglia, al
legame, alla fiducia, all’affidarsi, al concetto di cura: il passo è breve
quanto conseguente.
Un legame, quello
dell’addomesticare, che diventa “pericoloso” e a doppio taglio a causa della forza
emotiva impressa e sigillata dall’inevitabile “prendersi cura” (“keepers” – come veniamo chiamati in
animal training) che la domesticazione chiede in cambio.
Eccoci così giunti filologicamente
a Piero Scanziani e al concetto di coevoluzione (Senza cane, niente uomo), molto vicino ai concetti gnoseologici di base descritti da Lorenz ne "L'altra faccia dello specchio".
Tutto torna. Tutto rporta. E scandaglia le parti più
profonde del pensiero. Un termine – “pensiero” – che fino a pochi anni fa era
riservato solo alla specie umana.
Il sintagma (“l’essenziale è
invisibile agli occhi”) invita quindi a vedere le cose in un modo più profondo,
al di fuori della portata dei nostri cinque sensi e dell’esperienza empirica in
sé.
Infatti, il secondo segreto
rivelato dalla volpe è proprio <<Non
si vede bene che con il cuore>> - ma per comprendere questo pensiero,
ed il termine “cuore”, dobbiamo partire
proprio dalla gnoseologia che vuole discernere, e separare, la fantasia dalla
realtà.
La visione illuminista, tanto
cara ai cinofili abituati ad osservare la superficie secondo un approccio –
appunto - illuminista (i cinque sensi che determinano la percezione delle cose
viziando così l’osservazione), considera quell’invisibile come qualcosa di
fantastico; frutto di fantasia.
Ma cos’è la fantasia secondo de
Saint-Exupéry? Quanto c’è del mito Junghiano nella fantasia?
In realtà, tutto dipende da
cosa intendiamo con il termine “reale”.
Se intendiamo la realtà come
la testimonianza dei nostri cinque sensi (quindi del nostro corpo), significa
che la fantasia è una menzogna; una mera astrazione.
Ma nel momento in cui ci
poniamo però dal punto di vista della volpe (ecco il vero senso dell’alterità e
dell’empatia), la fantasia non è più una menzogna, ma si trasforma in una
facoltà gnoseologica – un modo più profondo di conoscere le cose, al di là del
visibile - perché rappresenta un passo oltre, verso quell’essenziale che gli
occhi non vedono.
Ed ecco che la fantasia
cambia il suo statuto, così come la realtà cambia il nostro concetto di
fantasia.
<<...ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un
rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno
nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica>>
La volpe non è quindi più
l’elemento zoomorfico di una fiaba o di un mito, ma la protagonista di una
nascente relazione che lei stessa vuole.
E’ proprio la volpe a
chiedere al piccolo Principe di essere addomesticata; di vedere al di là del
propri sensi e della propria esperienza empirica.
La volpe vuole scoprire cosa
c’è al di là del proprio istinto e dentro il mondo dell’inter-specie, usando
l’animo puro di un bambino: quella stessa porta
sicura che media tra il proprio mondo e il non conosciuto.
Nell’osservazione e nella
relazione con gli animali possiamo quindi approcciarci secondo un approccio
illuministico, o secondo quello del “oltre” – chiamato “inconscio” o “profondo”
del quale Freud, e l’eretico Jung,
sono i padri.
“Il piccolo Principe” è in
realtà un “dramma etologico”.
Dramma, a causa del legame riportato al valore della
perdita attraverso la facoltà gnoseologica del cambiamento; etologico perché
sottolinea quanto la realtà non si esaurisca con l’esperienza empirica, ma vada
alla costante ricerca di quel “al di là della percezione sensoriale”: la
stessa che permette al naturalista di osservare ciò che è invisibile agli occhi
della gente comune, partendo proprio dal senso di alterità e del mettersi nei
panni dell’altro (empatia) senza alcun filtro percettivo che lo vizi di fondo.
Saper “percepire”, significa “distaccarsi
dal manuale cinofilo quanto basti per
andare oltre”, così come “non visibile” non significa “meno reale”, ma
“reale celatamente”: il volto nascosto delle cose e del mondo.
Quando ci immergiamo nelle
leggende dei Monti Sibillini, non ci troviamo di fronte alla mera tradizione
orale di un popolo analfabeta che si raccontava davanti al fuoco, ma all’equazione
<<i miti e le fiabe stanno a una
civiltà (Jung) come i sogni stanno al
singolo soggetto (Freud)>>.
Questo è ciò che si definisce
in senso sociale “l’inconscio di una civiltà”; l’essenza culturale di un
popolo.
Perché se è vero che
l’essenziale è invisibile agli occhi, e che quindi la fantasia rappresenta la
modalità gnoseologica – il modo di conoscere la realtà oltre il velo
dell’apparenza – ecco che le creature fantastiche diventano l’espressione, la
modalità, attraverso cui questo essenziale ci si rivela: sono le tracce, i
segni dell’invisibile.
Per fare un esempio, la
fotografia rappresenta il segno di quanto ci appare, e noi – soprattutto oggi -
siamo bombardati di immagini costruite ad arte, ed in grado di richiamare
valori profondi che stimolano l’Io (ego freudiano) a mediare più di quanto già
non faccia tra l’istintualità dell’Es e i divieti del super-io.
Cosa si celi sotto una
fotografia ben congeniata, lo percepisce il nostro lato più vulnerabile quanto
ingestibile sotto il profilo logico: quello inafferrabile e non visibile, ma
non per questo assente.
L’identità di un popolo, nel
corso della sua evoluzione, ha creato famiglie, gruppi, condivisione, lingue, e poi
dialetti (il genius loci descritto
sopra). Così come ha creato i propri strumenti partendo dal contesto ambientale
che obbligò in qualche modo a costruire, in senso antropologico, le necessità
per sopravvivere.
Accogliere oggi queste
istanze, seppure non si faccia oggettivamente parte di quello specifico
contesto culturale, significa avere un senso di appartenenza: uno dei
caposaldi della psicologia umana. Che sia per diritto di nascita, o che sia per
scelta.
Se noi prendiamo tutti i
trattati antropologici dei Monti Sibillini, troviamo questo mantra (“non strecciare le criniere dei cavalli”)
ed apriamo al contempo la più famosa storia d’amore di tutti i tempi (Romeo e
Giulietta – di William Shakespeare), ed in particolare la penultima scena del
primo atto, Mercuzio dice a Romeo <<Mab
(la Regina delle Fate) è quella
fattucchiera che di notte intreccia le criniere dei cavalli e fortunati saranno
coloro che le strecceranno>>.
La cosa che in questo
parallelo deve far riflettere è che nessun antico abitante dei Sibillini poteva
conoscere Shakespeare, e l’argomento può quindi essere trattato solo come un archetipo
Junghiano che ritorna nelle diverse civiltà.
Lo psichiatra svizzero si
accorse che diversi pazienti, peraltro in maggioranza analfabeti, citavano in
modo preciso passi di antiche mitologie, e <<quindi – diceva Jung – dovevano
andare a pescare in qualche fonte alla quale tutti noi attingiamo e apparteniamo>>.
Jung chiamò questo fenomeno “inconscio collettivo”, lo stesso che in
ogni angolo della terra, tra le culture più disparate, ci fa percepire - come
una sorta di archetipo - il cane.
Ad ogni latitudine il cane
rappresenta se stesso nei confronti dell’uomo che l’ha addomesticato, ma pochi
uomini riconoscono il cane in quanto tale.
Il cane si svincola pertanto
dai cardini della moderna zooantropologia inserendosi nell’archetipo, esattamente
come quella volpe confidente che invita il piccolo Principe alla domesticazione;
all’interno di un “non tempo” e un “non spazio”.
Ciò che noi consideriamo superficialmente stereotipo si trasforma in qualcosa di molto più ancestrale e profondo. Qualcosa
di facente parte dell’umanità stessa: un’umanità che, con l’andare dei secoli,
ha ulteriormente selezionato il frutto di quella domesticazione richiamandone a
livello inconscio – ogni volta – la testimonianza iniziale.
Quando nella nostra vita arriva
un cucciolo, arriva una domesticazione.
Un’alterità che vuole farsi scoprire e che condizionerà la nostra vita, e così
come l’ultima gioia di un Argo morente fu quella di veder tornare il suo
Odisseo dopo tanti anni, la volpe riconoscerà i passi del piccolo Principe dagli altri passi.
<< …conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da
tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi
farà uscire dalla tana, come una musica>>.
(Odisseo e Argo morente)
La natura del contrasto: se non conosciamo il dolore nelle sue differenti forme, non riusciremo ad apprezzare i sentimenti e le sensazioni che ci piacciono.
“Il piccolo Principe” è un
racconto agli antipodi: da una parte la feroce attualità del “rasoio di Occam”,
dall’altra l’invito di Antoine de Saint-Exupéry.
Il neoplatonico Nicola
Cusano, cardinale e raffinato pensatore rinascimentale, definì l’incontro
dell’uomo con il mistero insondabile del reale, come un rapporto tra la mente
umana, strutturata secondo un principio di non-contraddizione, ed il limite
della comprensibilità in cui gli opposti coincidono: limite oltre il quale la
mente intuisce, proprio nel non
poterlo comprendere, l’Uno infinito che non è altro rispetto a nessuna cosa
finita, e che dunque non può essere concettualizzato nell’attività comparativa
della ragione.
Nella volontà della volpe c’è
la domesticazione, ma tentare di spiegare il legame - ognuno unico e
irripetibile - è come tentare di spiegare l’amore.
L’attuale tentativo di
omologazione delle masse cinofile nasce proprio dall'opposizione a questo fondamento. Traendo
linfa dallo stereotipo e dall’inganno della moda, l’essenza si nasconde, e con
lei, il desiderio puro e spontaneo della volpe descritta da Antoine de
Saint-Exupéry.
Accanto alla mia tenuta gli
archeologi trovarono la tomba di un guerriero celtico (i resti ed il corredo
funebre sono conservati nel museo di Ancona), e semmai avessi avuto bisogno di
ulteriori indizi sull’inspiegabile mio arrivo in questa terra potrei dire “tutto rporta”. Come rporta la naturale - e quindi invisibile - predisposizione personale nel lavoro con gli animali.
Ogni volta è uno stupore. Lo stesso stupore del piccolo Principe e un non tempo che avanza pur mantenendomi giovane sotto la fotografia delle rughe.
Ogni volta è uno stupore. Lo stesso stupore del piccolo Principe e un non tempo che avanza pur mantenendomi giovane sotto la fotografia delle rughe.
Ed è proprio dentro questa luce, che niente
mai di così invisibile agli occhi, diventa reale.
Claudio Mangini